Le parole ci condizionano. Le associazioni di parole ci condizionano. Una sola parola può evocare un gruppo di parole. Se, come ha scritto George Lakoff, un professore di Berkeley, si dice a qualcuno di non pensare all’elefante, quello ci penserà tutto il giorno e se lo sognerà di notte, magari emettendo qualche piccolo barrito nel sonno.
In questo momento l’Italia è ipnotizzata dall’elefante, parla solo dell’elefante e alla fine fa quello che desidera l’elefante: non parlare dei problemi reali, di dati, soluzioni, prospettive. Così come l’elefante si evoca con parole come proboscide, zanne, grandi orecchie, lo stesso avviene in questa campagna elettorale con giustizia, Iraq, sondaggi, terrorismo, televisioni, grandi opere, islam, conflitti d’interesse, calcio, par condicio per citarne alcune.
Tutte parole legate tra loro e che portano implacabilmente all’elefante. Gli elefanti usano le associazioni di parole per affermare il contrario del loro significato, come il “compassionate conservatism” di Bush.
Compassionevole? Bush? Per sottrarsi al gioco dell’elefante, uscire dal suo recinto di parole, bisogna ignorarlo e parlare di cose concrete, di numeri, cifre, fatti. Usare parole che non può usare, che non capisce.
Cosa ne sa un elefante delle energie alternative, delle nuove tecnologie, della lotta alla mafia, di un’amministrazione a misura di cittadino, della riduzione del debito statale, dello sviluppo della ricerca, del lavoro precario? Sono parole che gli danno fastidio e vanno fatte emergere in modo semplice, diretto.
Parole che vanno collegate tra loro perché creino un nuovo contesto, un frame alternativo. Un luogo in cui la parola elefante non può più esistere. E anche se dovesse continuare a esistere rappresenterebbe il passato, quello che forse c’era, ma adesso non c’è più.
Internazionale, numero 630, 24 febbraio 2006
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