Alla fine le elezioni polacche hanno dato vita solo a una breve tregua. Per qualche settimana i mezzi d’informazione internazionali hanno potuto sostenere che la Polonia aveva indicato la via per “sconfiggere il populismo” (ricordiamo che “populismo” è ormai un eufemismo molto diffuso tra i giornalisti di centro per definire l’estrema destra), ma a quanto pare i politici dei Paesi Bassi non hanno fatto in tempo a imparare la lezione.
Un mese dopo, il sistema politico olandese ha creato le condizioni ideali per la vittoria elettorale di Geert Wilders. Oggi, dopo un breve momento di speranza, ci avviciniamo al nuovo anno sotto l’ombra dell’estrema destra, che domina le prime pagine e stabilisce l’agenda politica.
Per molti versi il 2023 è stato un anno come tanti nella politica europea. L’Unione è rimasta sostanzialmente unita a sostegno dell’Ucraina, soprattutto facendo varie concessioni ai paesi contrari a questo appoggio. Allo stesso tempo, però, l’Europa è riuscita nell’impresa di aggravare la propria irrilevanza in Medio Oriente, attraverso una risposta contraddittoria e disorganizzata alla brutale vendetta di Israele dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre. A prima vista ci sono stati alcuni (presunti) successi: la Moldova e l’Ucraina hanno imboccato una corsia preferenziale per l’adesione all’Unione, mentre un nuovo piano per la crescita da sei miliardi di euro è stato approvato per facilitare l’ingresso dei Balcani occidentali.
Prospettiva nazionale
A livello nazionale il 2023 non ha prodotto alcuna tendenza elettorale o politica chiara. La maggior parte dei paesi ha improvvisato la propria linea, con fortune alterne. I governi francese e tedesco hanno continuato a perdere il sostegno popolare e oggi devono gestire l’ascesa sempre più minacciosa dell’estrema destra. Quasi tutti gli altri grandi paesi si sono concentrati sulle problematiche interne.
In Polonia il nuovo esecutivo incontrerà enormi difficoltà nel suo tentativo di liberare il paese dall’eredità del partito Diritto e giustizia (Pis), mentre in Italia Giorgia Meloni sta cercando di tenere unita la sua coalizione dopo aver dovuto ammorbidire o abbandonare gran parte del programma economico. In Spagna, Pedro Sánchez è riuscito a orchestrare un magistrale ritorno politico, ma la sua nuova coalizione, piuttosto fragile, sarà perseguitata dal prezzo che ha dovuto pagare per la vittoria, sotto forma di un accordo per l’amnistia controverso e impopolare.
L’ungherese Viktor Orbán, spina nel fianco dell’Unione, è ancora più isolato. Perso il sostegno degli alleati polacchi del Pis, e del loro cruciale diritto di veto, Orbán dovrà contare su Meloni o sul nuovo primo ministro slovacco Robert Fico per bloccare le sanzioni europee. Il problema è che sia Fico sia Meloni hanno meno interesse a salvare l’Ungheria di quanto ne avesse il precedente governo polacco. Per questo motivo sarà interessante capire come Orbán userà il semestre di presidenza ungherese dell’Unione, che comincerà nella seconda metà del 2024. Il primo ministro ungherese potrebbe cercare di accelerare l’adesione del Balcani occidentali per far entrare nuovi alleati all’interno dell’Unione, ma probabilmente si limiterà a sfruttare il suo ostruzionismo per incrementare i fondi europei e ridurre le critiche dell’Unione alla sua “cleptocrazia autoritaria”.
L’Unione europea entra in questo “super anno elettorale” mantenendo ancora intatta la coesione interna, per quanto sempre più rattoppata, e con una reputazione internazionale ai minimi storici. In cima all’agenda elettorale, naturalmente, ci sono le elezioni europee che si terranno dal 6 al 9 giugno in tutti i 27 stati. In un’epoca in cui l’estrema destra domina i mezzi d’informazione ed è data come favorita da molti sondaggi, in un contesto in cui il Partito popolare europeo sembra aver operato una netta svolta a destra, è molto probabile che il parlamento europeo diventi ancora più di destra, dopo che già nel 2019 le elezioni europee avevano sancito uno spostamento del centro in quella direzione.
Nonostante il sondaggio dei sondaggi del giornale online Politico preveda pochi cambiamenti nella distribuzione dei seggi tra i diversi gruppi politici – con modifiche di scarso impatto rispetto ai risultati del 2019 – le analisi di questo tipo presentano due difetti. Innanzitutto, nel parlamento europeo entreranno molti partiti nuovi che non sono ancora allineati con i gruppi esistenti, occupando 41 seggi su un totale di 710, secondo le stime. In secondo luogo, il numero e l’orientamento dei diversi gruppi possono ancora cambiare. Per esempio gira voce che il Partito popolare europeo (Ppe) stia corteggiando Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia (FdI), mentre i problemi elettorali del presidente francese Emmanuel Macron e della sua formazione Renaissance, insieme alle divisioni interne su temi e strategie, alimentano i dubbi sulla forza del gruppo liberale Renew Europe.
Tuttavia, il gruppo da tenere d’occhio con più attenzione è quello dei Conservatori e riformisti europei (Cre), corteggiato da due fronti. Nato come gruppo conservatore, il Cre è dominato ormai da anni da partiti di estrema destra come Pis e FdI. La principale differenza con il “vero” gruppo di estrema destra, Identità e democrazia (Ied) di Marine Le Pen e Geert Wilders, è la reputazione garantita dalle origini conservatrici. Ma oggi, con la maggior parte dei partiti di Ied in forte ascesa, la loro esclusione dall’arena politica è messa in discussione, come in Belgio e perfino in Germania; o è proprio superata, come in Austria e nei Paesi Bassi. La nascita di un unico grande gruppo nazional-conservatore (l’eufemismo preferito dell’estrema destra per definire se stessa) è da tempo il sogno di Orbán, ma le sue inclinazioni palesemente putiniane lo rendono politicamente tossico. Questo significa che il suo sogno dovrà aspettare ancora un po’.
Il Ppe vuole approfittare di questo stallo nel campo dell’estrema destra e sta valutando la possibilità di sostituire la tradizionale coalizione con l’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici (S&d, centrosinistra) con una nuova alleanza con il Cre, allineando in un certo senso la politica comunitaria alle tendenze nazionali. Per inciso, questo è un altro scenario sostenuto con forza da fonti vicine a Orbán.
A prescindere da quale sarà il risultato, l’Unione europea resterà probabilmente la stessa, cioè divisa su quasi tutto e rallentata da infiniti compromessi ed eccezioni. Anche se i rapporti di forza si sposteranno ancora più a destra, neanche una coalizione tra il Ppe e il Cre può pensare di governare senza il sostegno dei Socialisti e democratici o di Renew Europe. Questo dato di fatto potrebbe anche lasciare immutata la politica estera dell’Unione rispetto al conflitto in Ucraina e a quello israelo-palestinese, ma potrebbe avere un effetto sui rapporti con i due principali alleati in occidente, entrambi alle prese con importanti appuntamenti elettorali.
Cominciamo dal voto meno importante, le elezioni parlamentari britanniche, la cui data non è stata ancora fissata. I conservatori hanno sprecato il bonus della Brexit a causa di anni di incompetenza e lotte intestine. Anche se Rishi Sunak, quinto premier conservatore dopo il referendum sull’uscita dall’Unione, sembra riuscito ad arginare l’emorragia di voti, nei sondaggi il suo partito è ancora sotto il 25 per cento.
Al momento i tory sono talmente impopolari che neanche il noioso e inconsistente Keir Starmer può dilapidare l’enorme vantaggio del Partito laburista. Gli ambasciatori dell’Unione hanno definito “amorevoli” i rapporti con il leader laburista, ma è difficile che il miglioramento nelle relazioni personali possa portare a una revisione significativa di quelle istituzionali con il Regno Unito. Il Partito laburista deve affrontare profonde divisioni interne (su temi come la guerra tra Israele e Hamas), con un leader come Starmer che si è dimostrato estremamente prudente, procedendo “a piccoli passi verso il potere” e mantenendosi vago sulle questioni più controverse, compresi i rapporti con l’Unione europea.
D’altronde l’Europa ha chiaramente voltato pagina dalla Brexit, come dimostra il fatto che il Regno Unito non sia stato neanche citato durante il discorso sullo stato dell’Unione lungo un’ora pronunciato da Ursula von der Leyen l’anno scorso.
Tuttavia, l’Unione non potrà mai voltare pagina con gli Stati Uniti, dove a novembre si terranno elezioni decisive. A quanto pare i politici europei pensano che ignorando l’elefante nella stanza ne scongiureranno l’arrivo. Certo, ci sono buone possibilità che Joe Biden sia rieletto, ma siamo anche vicini al possibile disastro causato dal ritorno di Donald Trump.
Se l’ex presidente dovesse riconquistare il potere, quasi certamente lo farebbe con una maggioranza repubblicana sia alla camera sia al senato, trovandosi al vertice di un partito e di un sistema politico compatto anche grazie all’orientamento a destra della corte suprema. Questo scenario da incubo non è scontato, ma non può neanche essere ignorato. L’Unione europea può sopravvivere a una coalizione tra Ppe e Cre, a un prudente governo laburista nel Regno Unito, ma lo stesso non si può dire con certezza di una nuova presidenza Trump.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
In collaborazione con VoxEurop.
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