Il rapporto dell’ong Human rights watch (Hrw) A threshold crossed (Una soglia oltrepassata), uscito il 27 aprile, sostiene che lo stato israeliano è colpevole di crimini contro l’umanità, nello specifico di crimini di apartheid. Il nuovo studio si aggiunge alla denuncia della più importante organizzazione per i diritti umani israeliana, B’Tselem, che a gennaio ha definito l’occupazione israeliana in questi stessi termini nel suo rapporto Questo è apartheid.

Human rights watch è, insieme ad Amnesty International, la voce più autorevole, seria e indipendente in campo di diritti umani al livello internazionale. Il suo giudizio legale è stato redatto in un rapporto di 213 pagine in cui dimostra che “le violazioni dei diritti dei palestinesi nei territori occupati da Israele corrispondono a crimini contro l’umanità di apartheid”.

Giorni di tensione
La pubblicazione di Hrw arriva all’indomani di due settimane di scontri e violenze a Gerusalemme. Dall’inizio del Ramadan, a metà aprile, Gerusalemme è sull’orlo dell’esplosione, secondo il quotidiano israeliano Haaretz. Durante il mese sacro per l’islam, i palestinesi di Gerusalemme hanno l’abitudine di ritrovarsi la sera nei pressi della porta di Damasco, uno degli accessi alla moschea Al Aqsa, nella città vecchia. Si passeggia, si mangia un gelato con la famiglia, si guardano gli spettacoli di clown per bambini.

Ma a metà aprile le autorità israeliane hanno chiuso l’area ai palestinesi. Una misura umiliante, applicata senza dare nessuna spiegazione, sottolinea il quotidiano Al Quds, e che ha provocato le proteste dei palestinesi, represse dalla polizia israeliana. Dopo giorni di tensioni, il 22 aprile un gruppo ebraico di estrema destra, Lehava (la fiamma, in ebraico), che sostiene il divieto di matrimoni misti e vuole “espellere gli arabi della terra santa”, ha organizzato un rastrellamento nella città vecchia di Gerusalemme. Al grido di “morte agli arabi”, circa trecento militanti del gruppo sono andati nei centri commerciali e per strada a caccia di palestinesi. La marcia è stata indetta dopo che erano circolati su TikTok dei video che mostravano giovani palestinesi aggredire alcuni ebrei ultraortodossi in città. Negli scontri che sono seguiti, almeno 110 palestinesi sono stati feriti, mentre oltre cinquanta persone sono state arrestate.

Le difficoltà di Netanyahu a creare una maggioranza di governo stabile lo hanno spinto a reclutare anche nelle frange più estreme

La manifestazione di Lehava è stata resa possibile dalla “banalizzazione dell’estremismo ebraico nel panorama politico israeliano”, scrive in un lungo dossier il quotidiano libanese L’Orient-Le Jour. Lo storico Simon Epstein, autore di una storia del kahanismo – l’ideologia estremista ebraica ispirata al rabbino Meir Kahane che propone il trasferimento di tutti gli arabi nei paesi musulmani o in occidente – spiega a Le Monde che “per molto tempo questa ala di estrema destra fascista e razzista godeva di una complicità marginale nell’apparato statale. Oggi è direttamente collegata a Benjamin Netanyahu e alla sua strategia di sopravvivenza politica”.

A marzo, il primo ministro Netanyahu ha orchestrato la creazione di una lista congiunta di partiti razzisti e omofobi, che intendono cacciare gli arabi dalla Terra Santa. Le difficoltà di Netanyahu a creare una maggioranza di governo stabile negli ultimi due anni lo hanno spinto a reclutare anche nelle frange più estreme. I kahanisti hanno ora sei seggi nella knesset, il parlamento israeliano.

Le cose come stanno
La soluzione dei due stati non è stata mai così lontana e ormai si tratta, secondo Human rights watch, di risolvere il conflitto tramite l’applicazione del diritto in Israele, unico modo per aprire un futuro di pace tra i due popoli. Per Kenneth Roth, direttore dell’ong, è ora di guardare le cose come stanno, e non si può più considerare questa situazione come temporanea e pensare che “sarà modificata da un processo di pace che dura ormai da decenni”.

L’espressione apartheid è da tempo slegata dal sistema politico che era applicato in Sudafrica. Ai sensi della Convenzione sull’apartheid e dello Statuto di Roma che fonda la Corte penale internazionale, l’apartheid costituisce un crimine che comporta atti inumani “nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e di dominazione da parte di un gruppo razziale su altro o altri gruppi razziali, al fine di perpetuare tale regime”.

Tra gli atti disumani identificati nella Convenzione o nello Statuto di Roma ci sono il trasferimento forzato, l’espropriazione della proprietà fondiaria, la creazione di riserve e ghetti, la negazione del diritto di partire e di tornare nel proprio paese e il diritto a una nazionalità.

Uno dei principali elementi legali che crea in Israele le circostanze per un “regime istituzionalizzato di oppressione” è la legge sullo stato nazione del 2018, che definisce Israele come lo “stato nazione del popolo ebraico”, Gerusalemme la sua “capitale unita”, e l’ebraico la sola lingua ufficiale. Nessun riferimento a palestinesi, cristiani o musulmani. Questo costituisce una chiara base giuridica di discriminazione a favore degli ebrei israeliani a scapito dei palestinesi d’Israele, che rappresentano peraltro il 21 per cento della popolazione.

Un nuovo linguaggio
Il portavoce della presidenza palestinese, Nabil Abu Rudeina, ha dichiarato ad Al Quds che il rapporto di Hrw arriva “in un momento in cui le violazioni e i crimini israeliani si stanno intensificando ferocemente contro il popolo palestinese, specialmente nella Gerusalemme occupata, capitale dello stato di Palestina, e contro i cittadini palestinesi di Israele”.

Per il ministro degli affari strategici israeliano Michael Biton, si tratta invece di un “falso rapporto che non è in alcun modo correlato ai diritti umani, ma è un tentativo da parte di Human rights watch di minare il diritto dello stato di Israele di esistere come stato nazione del popolo ebraico”.

Dopo gli accordi di Abramo portati avanti da Jared Kushner, genero di Donald Trump, e l’ondata degli accordi di normalizzazione tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco, i “negoziati di pace” tra israeliani e palestinesi sono a un punto morto a livello politico. Il rapporto di Hrw propone di ripartire su altre basi: quando sono falliti i negoziati politici, è tempo di trovare il linguaggio comune della giustizia.

Il rapporto formula anche un appello molto forte alla comunità internazionale che da troppo tempo ha “chiuso un occhio sulla realtà sempre più evidente sul campo: ogni giorno una persona nasce nella prigione a cielo aperto di Gaza, senza diritti civili in Cisgiordania, in Israele con uno status inferiore per legge e nei paesi vicini condannato allo status di rifugiato permanente, come i suoi genitori e nonni prima di lui, e questo perché è palestinese e non ebreo”.

Prima che la Corte penale internazionale entri in possesso del dossier e lanci un’indagine per crimine di apartheid – che significherebbe per molti responsabili israeliani essere indagati e anche arrestati non appena varcano il territorio di uno dei 122 paesi firmatari dello Statuto di Roma – è nell’interesse di tutti (i 6,8 milioni di israeliani ebrei e i 6,8 milioni di palestinesi che vivono tra Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza) costruire un futuro di diritto.

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