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In Italia abbiamo cominciato a sentir parlare del nuovo coronavirus alla fine delle vacanze di Natale. Ancora un po’ storditi da brindisi e cenoni abbiamo saputo di questo virus lontano. Abbiamo cominciato a vedere le immagini del mercato di Wuhan sbarrato, i cittadini con le mascherine, i controlli della temperatura negli aeroporti, le prime scene di accaparramento nei supermercati. Ma la Cina sembrava così lontana, e poi gli asiatici le mascherine le hanno sempre portate, anche nella metropolitana di Roma o nel quadrilatero della moda a Milano. Erano immagini che non ci colpivano particolarmente: erano fatti loro.

Il covid-19 ci sembrava una specie di Sars, una specie di aviaria, un miscuglio di malattie di cui avevamo già sentito parlare e di cui avevamo ricordi confusi e superficiali. Anche quando, il 23 gennaio 2020, le autorità hanno deciso di chiudere Wuhan e poi l’intera provincia dell’Hubei, guardavamo le fotografie di quella metropoli deserta e abbiamo continuato a pensare “sono fatti loro”. Le riprese con i droni erano surreali: facevano sembrare una megalopoli da undici milioni di abitanti un modellino, il set di un film di Godzilla lasciato a metà. “Sono fatti loro”, continuavamo a ripeterci, ma sempre meno convinti.

In Davanti al dolore degli altri(2003) la filosofa statunitense Susan Sontag, già autrice del fondamentale saggio Sulla fotografia, parlando delle foto di guerra diceva: “Non si dovrebbe mai dare un noi per scontato quando si parla del dolore degli altri”. Sontag partiva dall’idea che ogni immagine violenta o sconvolgente, nell’ecosistema ipertrofico dei mezzi di comunicazione di massa, si porta dietro anche il suo antidoto: davanti al nostro sguardo iperstimolato si trasforma in un cliché. Negli anni settanta bastava girare la pagina di una rivista e dalle bombe al napalm su un villaggio viet cong si passava a una pubblicità con un gruppo di giovani dai sorrisi smaglianti su uno yacht. E Susan Sontag, morta nel 2004, non ha mai fatto in tempo a scorrere una timeline di Facebook.

Un bel giorno ci siamo svegliati che il “dolore degli altri” era diventato il nostro. E, dalle zone rosse in Lombardia e in Veneto, siamo passati rapidamente alla chiusura di tutto il paese. A differenza di un conflitto armato, che porta una distruzione ben visibile e rappresentabile secondo la tradizione iconografica più che centenaria della fotografia di guerra, la pandemia ha un immaginario molto più sfuggente.

I drammi che si consumano sono privati, avvengono nelle terapie intensive degli ospedali, nei pensionati per anziani, nelle case dei malati. I più colpiti fanno spesso parte di categorie precise: medici e operatori sanitari, lavoratori dei settori cosiddetti essenziali. E poi ci sono le categorie già fragili e invisibili in condizioni normali: i senza dimora, i migranti, i rifugiati e i poveri.

Un sistema radiale
All’inizio ci siamo aggrappati al tricolore e agli “andrà tutto bene” dipinti dai bambini. È durato poco, perché anche le immagini che vedevamo hanno cominciato a cambiare. Per alcuni di noi la svolta è stata quella fila di camionette militari che trasportavano le bare fuori dall’ospedale di Bergamo. Non era lo scatto di guerra di un grande fotoreporter; era la testimonianza cruda di una strage silenziosa. Quel giorno il covid-19 è diventato “un fatto nostro”.

Mettendo insieme le immagini che compongono questo speciale abbiamo ripensato a John Berger. Berger è stato un critico d’arte, un pittore e un poeta, ma soprattutto è stato un grande divulgatore. Era capace di trasformare l’esperienza privata della fruizione di un’immagine in qualcosa di pubblico, di condiviso e di politico. Nella sua raccolta di saggi Sul guardare (recentemente ripubblicata dal Saggiatore), Berger risponde al problema del dolore come cliché sollevato da Susan Sontag, e dice che è vero: le fotografie sono sempre un relitto del passato, anche quando sono state scattate ieri, ma il loro scopo non è ricordarci qualcosa, è quello, più profondo, di ricordarci di ricordare. “Il compito di una pratica fotografica alternativa”, scriveva nel 1978, “è di incorporare la fotografia nella memoria sociale e politica, invece di usarla come un sostituto che ne incoraggia l’atrofia (…). Il fine deve essere quello di costruire un contesto per una foto, costruirlo con le parole, costruirlo con altre fotografie.

Ma contesto non significa solo una bella didascalia con data e luogo dello scatto: contesto significa far funzionare una foto nello stesso modo in cui funziona la nostra memoria, che non procede in modo lineare ma è qualcosa, dice Berger, “di radiale”. Ognuna delle fotografie di questo speciale è parte di una storia che ci sta toccando tutti e che avrà conseguenze sul nostro futuro. Per questo vale la pena ricordare ancora le parole di John Berger: “Una fotografia deve costruire un sistema radiale che le consenta di essere vista in termini allo stesso tempo personali, politici, economici, drammatici, quotidiani e storici”.

In queste pagine vedrete spazi pubblici vuoti e case private che si trasformano in piccole città, vedrete gente allegra e gente disperata, vedrete luoghi familiari diventare estranei e troverete qualcosa di familiare in immagini scattate in paesi lontanissimi. La cosa importante è che queste immagini, quando tutto sarà passato, non diventino relitti del passato, ma entrino a far parte della nostra memoria collettiva e diventino una base su cui ricostruire un nuovo senso di comunità e di appartenenza.

Questo articolo è uscito a pagina 9 di Foto, Internazionale extra n. 11.

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