Dorothy Ashby (1932-1986) è stata una compositrice e arpista jazz statunitense. In particolare è stata una delle rarissime soliste di arpa jazz, una delle prime a dimostrare che l’arpa poteva essere usata come strumento d’improvvisazione in una jam session bebop. Nel 1983 disse che essere donna, nera e arpista “era una specie di triplo fardello da portare. Già non sono molte le donne che fanno musica jazz e l’arpa è uno strumento che non ha mai interessato il pubblico del jazz. Nessuno aveva voglia di vedere una donna nera che suonava l’arpa, fosse arpa classica o altro”. Ashby ha dunque dedicato la vita ad ampliare i confini della musica per il suo strumento.

Negli anni cinquanta si esibiva con un terzetto in cui il marito John Ashby suonava la batteria. Con John aveva fondato anche un gruppo teatrale chiamato The Ashby players of Detroit con cui musicava e metteva in scena testi dedicati alla diaspora africana, lavori che hanno offerto a diversi attori afroamericani la possibilità di debuttare in teatro. Una possibilità che non era certo scontata negli Stati Uniti a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta. Alla fine degli anni sessanta la musica di Dorothy Ashby si è fatta sempre più sperimentale. Dopo Afro-harping, uno straordinario album del 1968 in cui mescolava jazz morbido e afrofuturismo, tra il 1969 e il 1970 si è lanciata nel più ambizioso dei suoi progetti, The Rubáiyát of Dorothy Ashby, una suite di pezzi strumentali o cantati da lei stessa ispirati ai versi del poeta e filosofo persiano Umar Khayyām (1048-1131).

Siamo in una strana zona grigia tra quella che oggi chiameremmo una lounge vagamente funky e lo spiritual jazz. Non mancano i momenti potenzialmente kitsch, ma Ashby riesce sempre, con un guizzo improvviso, a sterzare e a riportare la sua musica su territori più astratti e rarefatti. In alcuni momenti Dorothy Ashby diventa una versione più leggiadra e ariosa (e meno distante) di un’altra grande arpista jazz, Alice Coltrane. Il virtuosismo di Ashby non si limita all’arpa e al koto (antico strumento giapponese a pizzico), ma si esprime anche in scelte di produzione come l’uso del riverbero e dell’eco nella registrazione sia di alcuni strumenti sia delle parti vocali. L’organico orchestrale di Rubáiyát è ricchissimo: l’arpa e il koto solisti di Dorothy Ashby svettano su un arrangiamento orchestrale per archi con frequenti incursioni di flauto, oboe, vibrafono e sax contralto. E poi c’è la voce di Ashby, che lei ha usato così di rado nel corso della sua lunga carriera, morbida e suadente quando recita le quartine del poeta persiano e piena di melismi quando le canta.

Per la sensibilità di oggi un album di arpa jazz tutto sommato facile come The Rubáiyát of Dorothy Ashby potrebbe sembrare solo esotismo piacione. Io trovo che sia invece il documento prezioso e ammaliante di un’epoca. Un’epoca in cui la musica, soprattutto quella afroamericana, stava allargando i suoi orizzonti, principalmente quelli spirituali. Non è un caso che Dorothy Ashby sia stata campionata da tutti i produttori hip hop più originali di oggi, da J Dilla a Flying Lotus.

Dorothy Ashby
The Rubáiyát of Dorothy Ashby
Cadet Records, 1970

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