In Mickey & Goofy in Hollywood (fumetto del 1951 uscito in Italia come Pippo a Hollywood) c’è una scena in cui Pippo e Topolino, in treno, capiscono che si stanno avvicinando alla California perché dal finestrino vedono un banco di fruttivendolo con frutta enorme (“fragole colossali”, “uva ultra colossale”, “arance super colossali”), architetture assurde (una casa a forma di scarpa) e cani a spasso con gli occhiali da sole. “Qualcosa mi dice che ci stiamo avvicinando a Hollywood”, dice Pippo a Topolino.

Un senso di meraviglia simile deve aver provato il musicista Mel Tormé (1925-1999) quando, già bambino prodigio, si traferì a Los Angeles da Chicago con la sua famiglia di immigrati ebrei polacchi. Erano gli anni trenta ed era il periodo in cui, dopo la crisi del 1929 e in piena depressione, Hollywood doveva essere più gaia e lussuosa che mai perché la macchina dei sogni doveva funzionare a pieno regime mentre fuori da lì regnavano fame, malcontento e instabilità sociale. Era la Hollywood Babilonia descritta da Kenneth Anger, in cui l’attrice Joan Crawford appariva sui manifesti pubblicitari in pelliccia di visone con la scritta “Spendi!”. Nel paese, impoverito e allo stremo, si cominciava a protestare per gli ingaggi milionari dei divi del cinema e lei rispondeva dicendo: “Io, Joan Crawford, credo nel dollaro: quello che guadagno spendo”. Il giovanissimo Mel Tormé non poteva non rimanere colpito dalla California, questa terra dell’abbondanza e delle illusioni che stava costruendo, attraverso il cinema, la musica e la letteratura, il mito di se stessa.

A metà degli anni quaranta Melvin Howard Tormé è già una star di media grandezza: è un apprezzato crooner e un discreto pianista jazz. Non può competere con Frank Sinatra che, tra le altre cose, è decisamente più bello di lui, ma gioca la stessa partita e la gioca con un innato senso del cool. È noto per le canzoni romantiche che scrive (è suo il classico natalizio Chestnuts roasting on an open fire) e che interpreta con uno stile felpato che gli fa guadagnare il soprannome di “velvet fog” (nebbia di velluto). Oltre a suonare nella band di Chico Marx, uno dei fratelli Marx, fonda i Mel-Tones, uno dei primi gruppi vocali jazz, aprendo una strada che sarà battuta per tutto il resto del novecento e oltre da gruppi come i Manhattan Transfer, tanto per fare un solo nome.

Un musical tascabile
Ispirato da Manhattan tower, una composizione orchestrale di Gordon Jenkins dedicata a New York uscita nel 1946 in un doppio 78 giri, Mel Tormé si mette al lavoro per creare una sorta di musical tascabile dedicato alla sua California. Manhattan tower non era certo la prima composizione a forzare i limiti angusti del 78 giri; nel 1935 c’era stato già Duke Ellington con la sua pionieristica suite Reminiscing in tempo, ma Mel Tormé era troppo giovane e forse troppo bianco per ricordarla, e soprattutto Manhattan tower non era così pensosa e musicalmente complessa: era brillante, modernissima, uno dei primi dischi a incorporare rumori del traffico e della città. Pur essendo spalmata su due 78 giri, Manhattan tower è, secondo Bob Stanley (storico del pop e componente della band britannica Saint Etienne), uno dei primi tentativi di “concept album” della storia della musica popolare. Di Manhattan tower sopravvive nel repertorio del dopoguerra solo una canzone, New York’s my home, ripresa da Ray Charles con swing inconfondibile. Mel Tormé s’ispira dunque a Gordon Jenkins per scrivere, arrangiare ed eseguire il suo luminoso e brillante omaggio alla terra dell’oro e dei sogni, la California.

Tormé è un compositore spiritoso e un arrangiatore brillante: nel 1949, nella prima versione di California suite condensa un mini musical, con cori, personaggi, descrizioni e colpi di scena. C’è sempre lui a cantare, con la sua voce di velluto, e ad accompagnarlo c’è l’inconfondibile Peggy Lee. Si parte con il senso di meraviglia che deve aver provato da bambino lasciando Chicago per la terra promessa (The golden West) e con la gioia di vivere nel migliore dei mondi possibili (We think the west coast is the best coast). Ci sono i newyorchesi increduli che chiedono: “Ma come fate a divertirvi laggiù senza Coney Island?”, e Mel risponde cantando le meraviglie di San Diego e del Golden Gate. Non manca il quadretto di Hollywood, fabbrica di illusioni e delusioni: in Poor little extra girl si descrivono le disgrazie di una comparsa che è arrivata a Los Angeles sognando la celebrità e si ritrova ad aspettare telefonate che non arriveranno mai.

Nel 1957, quasi dieci anni dopo, Mel Tormé decide di tornare sulla sua California suite per riarrangiarla, estenderla e adattarla al formato del long playing: finalmente c’è lo spazio per tutta la musica che ha in mente. La tecnologia in dieci anni si è evoluta e la registrazione hi-fi permette al disco di Mel Tormé di far esplodere tutti i colori della sua orchestra. Nella nuova versione si sente che Tormé non ha solo digerito la lezione di Cole Porter ma anche quella più classica ed europea di uno dei suoi compositori preferiti, il britannico Frederick Delius (1862-1934), che dal Regno Unito si trasferì in Florida nel 1884 facendosi influenzare fortemente dalla musica afroamericana.

Nel 1957 sta nascendo il rock’n’roll e i Beach Boys, altri grandi forgiatori del mito californiano, si sarebbero formati di lì a poco, nel 1961. La California suite del 1957 ha già qualcosa di fané, un sapore nostalgico da vecchia Hollywood, eppure trasuda cool e possiede, in filigrana, una caratteristica che rimarrà una costante in tutta la musica pop californiana che seguirà, dal rock della controcultura agli Eagles, dai Fleetwood Mac a Lana Del Rey: un senso di sottile nostalgia, se non di disperazione o di follia, sempre in agguato dietro al sogno, dietro ai colori e ai profumi dell’oceano, delle palme e delle “arance super colossali”.

Mel Tormé
Mel Tormé’s California Suite
Bethlehem, 1957

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Mel Tormé
Velvet moods (including the original California Suite)
Él Records, 1946-1949

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