Il compositore, produttore e pianista statunitense Burt Bacharach, morto l’8 febbraio a 94 anni, veniva spesso descritto con uno di quei bellissimi aggettivi così difficili da tradurre in italiano: “debonair”. È una parola che viene dalla tradizione cortese francese (debonaire) e indica un uomo “di buon lignaggio”. L’aggettivo debonair in inglese moderno indica il fascino, l’eleganza, la disnvoltura e la capacità di relazione di un uomo di mondo (è un aggettivo che a tutt’oggi si declina esclusivamente al maschile) a suo agio ovunque.
Per capirci: il divo di Hollywood Cary Grant era debonair; lo è il James Bond di Sean Connery e sapeva esserlo Frank Sinatra quando non si arrabbiava. Burt Bacharach era la quintessenza del debonair. Alto, elegante, sorridente, cosmopolita e affabile: un uomo colto e un musicista preparatissimo che ha, di fatto, inventato la musica pop come la intendiamo oggi. Quanti altri musicisti conoscete che nell’arco di settant’anni hanno lavorato con artisti che vanno da Marlene Dietrich al rapper Dr. Dre?
Bacharach era un artigiano della musica pop. Una specie di sarto, anzi di couturier della canzone. Insieme al paroliere Hal David, che aveva conosciuto nel 1957, dopo cinque anni passati come direttore musicale delle tournée teatrali di Marlene Dietrich, ha composto centinaia di canzoni. Bacharach e David hanno affinato uno stile che univa testi arguti e sofisticati (una sorta di Cole Porter aggiornato ai primi anni sessanta) a soluzioni musicali sorprendenti e innovative. Bacharach aveva una solida base classica, sia come pianista sia come compositore, che gli permetteva di avventurarsi dove gli altri anche abilissimi compositori e arrangiatori del Brill Building o di Broadway non osavano neanche avvicinarsi. Il suo maestro di composizione, Darius Milhaud (insegnante, tra gli altri, anche di Philip Glass, Karlheinz Stockhausen e Dave Brubeck), gli diceva di non vergognarsi di scrivere musica che si potesse fischiettare e lui lo prese in parola. Le canzoni di Bacharach sono facili ma non banali: la loro istantanea gradevolezza, la loro “fischiettabilità”, nasconde un grande lavoro di smontaggio e di riassemblaggio di quei piccoli elementi che fanno di una canzone un grande successo pop.
Piazzisti di canzoni
Bacharach e David erano compositori ma anche, nella consolidata tradizione del Brill Building, piazzisti di canzoni: componevano, arrangiavano e poi vendevano il loro prodotto in giro, tra artisti, radio, tv, manager e discografici. All’inizio degli anni sessanta erano già discretamente famosi e avevano piazzato diverse hit tra cui la fischiettante Magic moments per il cantante e star televisiva Perry Como. Il loro procedimento era industriale, quasi da catena di montaggio, e anticipava di qualche anno la grande intuizione dell’etichetta afroamericana Motown, fondata a Detroit nel 1960. Proprio come parte di un oliato meccanismo industriale Bacharach e David avevano cominciato a produrre dei demo, ovvero dei dischi stampati in pochi esemplari con la canzone inedita arrangiata e cantata da anonimi coristi. Era un modo veloce ed efficace, sicuramente più di uno spartito stampato, per far conoscere ad artisti famosi e manager le potenzialità del loro prodotto-canzone.
In quegli anni, nel mondo dell’arte newyorchese, si stava formando l’embrione di quella che oggi chiamiamo pop art: mentre Bacharach e David incidevano demo e piazzavano le loro canzoni pop (che spesso nascondevano ardite innovazioni della musica classica contemporanea), il giovane Andy Warhol stava cercando un modo di trasformare la sua illustrazione commerciale pensata per riviste e vetrine della Madison Avenue in “arte alta” da esporre in gallerie e musei. Nella New York dei primissimi anni sessanta i confini tra cosiddette arti commerciali e arte propriamente detta andavano facendosi sempre più porosi e indefiniti.
Durante una seduta di registrazione con i Drifters Bacharach conosce una cantante di nome Dionne Warwick: era lì con la sorella Dee Dee e non doveva neanche cantare, era solo una pianista accompagnatrice. Dopo averla sentita armonizzare con la sorella, Bacharach s’innamora della sua voce e del suo stile al punto da impiegarla come cantante per i suoi demo. Ogni demo le veniva pagato 15 dollari (“in realtà erano 12 dollari e 50”, ha puntualizzato Warwick ridendo in uno speciale televisivo degli anni settanta) e, canzone dopo canzone, tra il compositore e la cantante nasce una sintonia perfetta.
Bacharach comincia a comporre espressamente per la voce, piccola ma duttile e perfettamente intonata di Warwick e lei si trasforma in una specie di suo alter ego. Bacharach era anche un discreto cantante, ma con Dionne Warwick aveva trovato la sua vera voce, un suo doppio femminile attraverso cui proiettare tutta la delicatezza e la raffinatezza della sua musica. Come Burt Bacharach anche Dionne Warwick irradiava un glamour naturale e privo di affettazioni: il suo viso quasi cubista aveva un fascino scultoreo, gli abiti da sera degli anni sessanta disegnavano meravigliosamente la sua figura, e la sua voce, agile e nitidissima, incarnava lo spirito del pop radiofonico di quel periodo. Warwick aveva la musicalità e il ritmo di una cantante afroamericana cresciuta con il gospel ma senza il blues, il dolore o le ferite. Insieme a Diana Ross era la voce che meglio rappresentava le aspirazioni di una classe media afroamericana ansiosa di riscatto e di rappresentazione. I suoi modelli di stile erano Marlene Dietrich (che aveva conosciuto tramite Bacharach) e Lena Horne, la prima vera star di Hollywood afroamericana. Dettaglio non trascurabile: Warwick è cugina per via materna di Leontyne Price, la prima cantante lirica nera ad avere un ruolo da protagonista al Metropolitan di New York.
Una sedia è sempre una sedia
Make way for Dionne Warwick è il terzo album solista che produce insieme a Burt Bacharach e Hal David ed esce il 31 agosto del 1964, a pochi mesi di distanza dal precedente Anyone who had heart. La ditta Bacharach, David & Warwick macinava talmente tante canzoni che gli album uscivano uno dietro l’altro, spesso con doppioni ma poco importava: il pubblico americano, e quello inglese grazie alle reinterpretazioni di Dusty Springfield, Cilla Black e Petula Clark, seguiva entusiasticamente a ruota.
Su dodici canzoni dell’album, nove sono di Bacharach e David e sono la vetta più alta della loro produzione. L’album si apre con A house is not a home, a tutt’oggi una “signature song” di Dionne Warwick che pur essendo stata ricantata da chiunque rimarrà per sempre associata alla sua personalità e al suo stile. È una canzone che parla di spazi lasciati vuoti e di solitudine, ma Warwick la canta con una delicatezza e una nitidezza che trasformano la malinconia in un mobile di design anni sessanta: “Una sedia rimane una sedia anche se non c’è più nessuno seduto lì”. The land of make believe è un raffinato gioco di ombre cinesi: i brutti sogni di una bambina che si dissolvono innocui nella luce del giorno.
Ci sono un po’ di Cole Porter (“All the tea in China or the corn in Carolina”, tutto il tè della Cina o il granturco della Carolina) e un delicato soffio di psichedelia proto-hippy (“Run for the sun, Little one”, corri verso il sole piccolina). Reach out for me era stata scritta per il pianista e crooner Lou Johnson ma viene impeccabilmente riarrangiata per Dionne che ne fa qualcosa di assolutamente suo. You’ll never get to Heaven (if you break my heart) è una classica canzone di Broadway astutamente travestita da hit radiofonica: ariosi arrangiamenti semiacustici, su cui Warwick vocalizza i suoi “la, la, la, la” che si alternano a opulente parti per archi. Sono tre minuti di pura beatitudine che evocano quel paradiso che il destinatario della canzone non conoscerà mai se insiste a spezzare il cuore della cantante.
Il più grande successo della raccolta è però Walk on by, che è una specie di manifesto dello stile di Bacharach-David-Warwick. Su un ritmo insinuante, quasi di bossanova e venato di allegra malinconia, Dionne canta: “Se m’incontri per strada e vedi che scoppio a piangere quando ti vedo tira dritto”. È la storia di un amore finito e dello sconforto che si lascia dietro trasfigurata in un leggerissimo ninnolo di cristallo. Quando Dionne canta “lasciami soffrire da sola perché ogni volta che ti rivedo scoppio in lacrime” sembra assente, quasi in trance: non c’è traccia del dolore di cui sarebbe capace un artista soul, c’è invece una descrizione sì malinconica ma molto stilizzata della mancanza. Walk on by è la negazione del blues: è l’astuta trasfigurazione del dolore in un purissimo manufatto pop per le radio. Walk on by parla sia a chi sta soffrendo per amore sia a chi ha voglia di canticchiare un motivetto orecchiabile.
Ci penserà il grande artista soul Isaac Hayes a invertire la formula di Bacharach in chiave funk psichedelica con la sua straordinaria Walk on by del 1969. La sua versione, che sull’album Hot buttered soul dura più di 12 minuti, sembra atterrare da un altro pianeta: il delicato andamento pop di Warwick diventa una lunghissima, estenuante cavalcata, tra la colonna sonora di un film blaxploitation e il progressive funk. Hayes non ridà blackness a un pezzo easy listening scritto da una coppia di compositori bianchi, come qualcuno può erroneamente pensare, ma dimostra quanto soul ci fosse, anche se solo in filigrana, in una composizione pop apparentemente leggerissima e orecchiabile. E questo soul stilizzato, sfuggente e appena accennato è la vera eredità che Burt Bacharach (attraverso la voce del suo doppio femminile Dionne Warwick) ha lasciato al miglior pop che ascoltiamo ancora oggi.
Dionne Warwick
Make way for Dionne Warwick
Scepter, 1964
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