“È con grande tristezza che annuncio la perdita della nostra amatissima madre e della vostra icona e artista Marlena Shaw. È morta oggi alle 12:03. Era in pace e anche noi eravamo in pace”. Così, il 19 gennaio, in un post su Facebook, Marla Bradshaw ha dato la notizia della morte della madre, la grande cantante jazz Marlena Shaw, che aveva 81 anni.
È un po’ riduttivo definire Marlena Shaw una cantante jazz perché nella sua lunga carriera – aveva esordito a dieci anni all’Apollo theatre di Harlem, a New York, insieme allo zio, il trombettista Jimmy Burgess – ha cantato in qualunque stile: pop, soul, funk, blues, gospel e disco. Sempre in modo eccellente e sempre con un tocco assolutamente personale. Forse la ragione per cui non è famosa come altri artisti della sua generazione (Dionne Warwick, per fare solo un esempio) è perché non si è mai legata a un genere preciso e, anche discograficamente, è stata vagabonda e inafferrabile.
Ha esordito con la Cadet (etichetta sussidiaria della leggendaria Chess records, la casa del blues), per diventare, dopo aver lasciato l’orchestra di Count Basie, la prima donna a essere messa sotto contratto dall’etichetta jazz Blue Note. Poi è passata alla Columbia, dove ha cantato rnb, pop e perfino disco music. Nel corso della sua carriera ha inciso anche per la Verve e per la Concord Jazz. Tra le sue coetanee solo Aretha Franklin è diventata leggendaria esplorando generi musicali così diversi. Ma lei era Aretha Franklin.
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Proprio come Aretha Franklin, Marlena Shaw era una musicista prima che un’interprete. È una distinzione importante, che ha sottolineato in un’intervista del 2014. “Imparate il piano, perché non diventerete tutti delle rock star”, ha detto. “Sì, imparate uno strumento, perché vi aiuterà con l’intonazione e con gli arrangiamenti, così non sarete sempre in mano ai musicisti. Dovete sapere sempre cosa state facendo perché non sempre quelli della band sanno come aiutarvi”.
Che Marlena Shaw fosse una musicista oltre che una straordinaria interprete si sente chiaramente in The spice of life, inciso nel 1969 per la Cadet. Era il suo secondo album, ma Shaw era già una performer navigata. Non solo aveva debuttato da bambina, ma fin dagli anni cinquanta era praticamente sempre in tournée. A quell’epoca molti esordienti erano già artisti consumati e Marlena Shaw nel 1968 aveva le spalle abbastanza larghe da potersi permettere sperimentazioni anche piuttosto ardite.
Marlena Shaw e Count Basie in concerto nel 1968
The Spice of life nasce come un album jazz abbastanza ibrido: i suoi produttori sono Charles Stepney e Richard Evans. Stepney aveva lavorato su Electric mud, l’album quasi psichedelico del bluesman Muddy Waters, e Evans aveva una grande esperienza nel pop e nell’rnb avendo lavorato con Carole King e il duo Ashford & Simpson.
L’album si apre con quello che sarebbe diventato un classico: Woman of the ghetto. Il pezzo, scritto dalla stessa Shaw insieme ai suoi produttori, parte con un basso ostinato e funky su cui poggia un canto dolente ma pieno di orgoglio e di sfida. Shaw si chiede come fa una donna del ghetto a vivere in mezzo ai ratti e a sfamare i suoi figli, e un coro di donne le risponde, come in chiesa, ma lei non sta parlando con Dio ma direttamente con chi fa le leggi che le impediscono di vivere dignitosamente. “Dimmelo tu, uomo politico” canta: “Come ti guadagni il pane nel ghetto? Io sono orgogliosa, libera, nera… sì sono io, ma sono una donna del ghetto… i mei occhi non sono blu. Sono una donna del ghetto”.
Poche canzoni raccontano con tanta chiarezza il razzismo sistemico a cui sono sottoposti i neri negli Stati Uniti. Woman of the ghetto descrive le inner city in cui sono segregati i neri più poveri, esclusi dall’istruzione e dal lavoro, e abbandonati a gang e malavita. “Come dai da mangiare a un figlio sapendo che ne lascerai un altro affamato?”, chiede la cantante con voce ferma, quasi da predicatrice. La linea di basso e le percussioni creano quasi una tela bianca che viene riempita di colore dalla voce urgente e ricca di sfumature di Marlena Shaw.
Marlena Shaw, Woman of the ghetto live al Montreaux Jazz Festival, 1973
Emily Lordi, autrice del libro The meaning of soul, spiega che Woman of the ghetto è una risposta caustica (e assolutamente politica) al racconto che molti sociologi bianchi facevano delle comunità urbane nere negli anni sessanta. Spesso davano la colpa della sporcizia e della malavita dei quartieri abitati da neri ai neri stessi, dipinti come pigri, rissosi e inadatti al lavoro. La donna che parla in prima persona e si presenta come “donna del ghetto”, risponde direttamente a queste accuse fondamentalmente razziste: “Ah sì? E noi come facciamo allora? Come possiamo uscire da qui?”.
Un’altra caratteristica notevole del pezzo è la tecnica dello scat singing che Marlena Shaw ben conosce in ambito jazz, ma che qui trasforma in un gesto di protesta: le sillabe ripetute delle due parole “change” (cambiamento) e “chains” (catene) perdono qualunque connotazione virtuosistica per diventare il suono di tanti piedi che marciano. Shaw non sta facendo solo delle variazioni su un tema, come facevano Ella Fitzgerald o Sarah Vaughan, ma sta dando il tempo alla marcia inarrestabile dei diritti civili.
Stormy monday (scritta da T-Bone Walker) porta Marlena Shaw in un territorio più classicamente blues. Accompagnata da organo hammond, batteria, contrabbasso e da un’armonica particolarmente brillante, Marlena si trasforma con abilità da camaleonte. È sempre lei ma sembra un’altra artista, posseduta dallo spirito di Dinah Washington. Ha quella stessa capacità di trasformare un classico del blues in uno standard jazz da supper club di lusso.
Parliamo di liberazione
L’arrangiamento di Where can i go cambia ancora le carte in tavola: è jazz ma un po’ sporcato di funky, morbido e modernissimo. È forse il momento orchestralmente più bello, quello in cui brilla il lavoro dei due produttori. A Marlena Shaw non resta che appoggiarsi e cantare con giocoso abbandono.
L’organo hammond che apre I wish i knew ci porta finalmente in chiesa. Marlena vocalizza e poi parte un pezzo che combina jazz e gospel in modo assolutamente convincente. La versatilità vocale di Shaw è sbalorditiva: la sua voce qui è piena di luce e di gioia, sembra lei stessa a condurre la festa: chitarra e armonica la seguono con variazioni e virtuosismi.
Liberation conversation è un altro pezzo di protesta, stavolta femminista, ancora scritto dalla stessa Shaw e ancora una volta occasione di mostrare le sue doti di scat singer. “Blues ain’t nothing but a good woman gone bad”, il blues non è altro che una brava donna che diventa cattiva. E per “bad” Marlena intende padrona di sé, difficile forse, ma certo non più “good”, ovvero dolce e remissiva. La g della parola di “gone” viene ripetuta a scatti, sembra quasi una mitraglia e quell’urlo acuto “woooo!” che ricorre è un grido di gioia, di abbandono e di liberazione.
California soul, scritta da Ashford & Simpson, è la vera hit dell’album. Non è stata un successo subito ma lo è diventato nel corso del tempo, ed è la signature song di Marlena Shaw. È una canzone rilassata e decisamente cool, senza il mordente e l’urgenza di Woman of the ghetto o Liberation conversation, ed è un altro arrangiamento brillante e spericolato di Stepney ed Evans. La musica è eccessiva e barocca: la canzone cresce fino quasi a scoppiare tra archi, fiati ruvidi, battiti di mani e cori angelici. I produttori possono farlo perché sanno che nessun eccesso orchestrale potrà mai schiacciare la voce di Marlena Shaw, che si mette al posto di guida di questa macchina così complessa senza alcun problema. California soul è uno squarcio di sole che inonda la stanza, ovunque voi siate. Il pezzo è stato al centro di una notevole riscoperta a partire dagli anni novanta, grazie a una gran quantità di campionamenti hip-hop. È stato anche remixato varie volte con esiti discutibili: quell’arrangiamento del 1969 è meglio non toccarlo, pompare il basso o aggiungere riverberi o loop qua e là è come fare i baffi alla Gioconda. O sei Marcel Duchamp o è meglio lasciar perdere.
Chiudere un album così ricco di spunti, di atmosfere e di invenzioni è complicato. Anyone can move a mountain ha il grande merito di non interrompere il flow e di portarci ancora più in alto. L’inizio è drammatico, quasi da film, e Marlena comincia cantando dolcemente. Ma la canzone cresce, con un piano sempre più incalzante, e anche la voce s’ingrossa come un mare in tempesta. Tutti possono smuovere le montagne, basta avere fede: e un grande coro accompagna la voce di Marlena Shaw verso un finale assolutamente soddisfacente.
The spice of life dura solo 31 minuti, ma sembra un viaggio di anni. L’album non ebbe successo quando uscì e fu l’ultimo che Marlena Shaw incise con la Cadet. La sua carriera discografica era solo all’inizio: Shaw ha continuato a incidere fino al 2004 e ha cantato dal vivo fino al 2014.
“È stata Marlena fino all’ultimo giorno”, ha scritto la figlia nel suo post di addio su Facebook.
Marlena Shaw
The spice of life
Cadet, 1969
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