Un giorno del 1968 la musicista Alice Coltrane (1937-2007) sente bussare alla porta della sua casa a Dix Hills, a Long Island. C’è una consegna per lei, una grande arpa da concerto a pedali, che il marito John Coltrane aveva ordinato poco prima di morire, nell’estate 1967. “Da lì è nata la mia voglia di suonare l’arpa”, racconta Alice Coltrane in un’intervista radiofonica del 1988: “Aveva ordinato lui quello strumento e ce l’ho ancora oggi. Non è mai riuscito a vederla con i suoi occhi. Ci è voluto più di un anno perché ce la consegnassero, perché è stata fatta interamente a mano”.
Anche da morto, l’amatissimo marito John Coltrane era stato la causa di un nuovo capitolo della ricca vita di musicista, bandleader e compositrice della moglie. L’arpa diventa in qualche modo lo strumento del risveglio spirituale di Alice Coltrane, che aveva studiato pianoforte classico a Parigi, era stata allieva di Bud Powell e aveva sostituito McCoy Tyner al piano nel gruppo di John Coltrane. “Il pianoforte è l’alba e l’arpa è il tramonto”, ha detto. “Tutta quell’energia, luce e brillantezza che vediamo nel sole che a noi sembra sorgere siamo in realtà noi che ci muoviamo verso la luce: tutto questo lo senti nel pianoforte. Poi senti le sonorità dell’arpa, le sottigliezze, la serenità, la pace che somiglia tanto a quello che chiamiamo tramonto. Ma il sole è sempre il sole e una persona è sempre quella che è”.
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Alice McLeod sposa John Coltrane nel 1965. Entrambi erano stati sposati e avevano figli. A farli incontrare è il virtuoso del vibrafono Terry Gibb, nel cui quartetto Alice suonava. Tra i due l’intesa è completa, anche dal punto di vista musicale e spirituale. Anzi, nella loro relazione i due piani a un certo punto si sovrappongono: la musica per entrambi diventa strumento di esplorazione di sé ed esperienza mistico-religiosa, una forma di meditazione e di testimonianza. Insieme si appassionano alla spiritualità indiana, che innestano sulla religiosità evangelica afroamericana. Alice in particolare, originaria di Detroit, aveva suonato organo e pianoforte in chiesa ed era molto legata al cerimoniale delle messe evangeliche. I Coltrane hanno anche tre figli: John Jr. (1964-1982, batterista), Ravi (1965, sassofonista) e Oranyan (1967, dj).
Alla morte di John, Alice rimane sola e sembra quasi crollare. Ha dei bambini da crescere ed è molto stanca, è tentata di lasciare anche la musica. Perde peso, smette di dormire e soffre di allucinazioni. Attraversa un periodo di tribolazioni che più tardi, con la consapevolezza raggiunta attraverso lo studio di testi vedici, avrebbe descritto con il termine sanscrito tapas, ovvero un accidentato percorso di purificazione interiore. Fondamentale per lei è l’incontro con Swami Satchidananada, il discusso guru che inventò la dottrina dello yoga integrale, che la introduce allo studio della spiritualità indiana, un’attività che l’assorbirà sempre di più fino farle prendere il nome, nel 1975, di Turiyasangitananda nelle sue funzioni di guida spirituale dell’ashram nel sud della California in cui morirà nel 2007.
Alice Coltrane, Turiya & Ramakrishna, 1970
L’arpa che le arriva a casa nel 1967 è un segno: prima di tutto che non deve abbandonare la musica e che attraverso quello strumento, che era quasi un dono dall’aldilà, poteva proseguire il percorso spirituale e artistico che aveva cominciato col marito, all’epoca delle leggendarie registrazioni dell’album A love supreme nel 1964.
Coltrane è stata un’autodidatta con l’arpa, uno strumento poco usato nei gruppi jazz e che in quel mondo aveva solo una grande virtuosa riconosciuta: Dorothy Ashby, pure lei di Detroit. Anche Ashby era interessata all’arpa come strumento dotato di un particolare valore spirituale e di una connessione con l’antichità. Nel 1968 aveva allargato i confini di cosa quello strumento a corde pizzicate potesse fare in un contesto jazz con un album intitolato Afro-Harping che ha sicuramente influenzato Alice Coltrane a cavallo tra anni sessanta e settanta.
La fascinazione afrocentrica per l’antico Egitto
Per Coltrane l’arpa è uno strumento ancestrale, legato all’antico Egitto, terra mitica e magica da cui, secondo le teorie dei movimenti panafricanisti, sarebbe sgorgata tutta la cultura del continente africano, una cultura, una spiritualità e una religiosità che permeano anche oggi il sentire di poeti e artisti afroamericani. Una cultura importante che li aggancia a una storia antica che gli era stata portata via dopo lo sradicamento violento della tratta degli schiavi. Per gli schiavisti e i colonizzatori i neri strappati dai loro villaggi e ammassati nelle navi negriere erano primitivi e quindi, una volta incatenati e venduti, privi di storia e di cultura. Tornare all’antico Egitto significava tornare alle fonti di quella preziosa storia dispersa.
Il primo album solista di Alice Coltrane esce proprio nel 1968 e s’intitola A monastic trio: in copertina compare seduta con la sua grande arpa e il lavoro è dedicato al “mistico Ohnedaruth, conosciuto anche come John Coltrane nel periodo tra il 23 settembre 1926 e il 17 luglio 1967”. È anche il suo primo lavoro come bandleader e come autrice di tutti i pezzi. Lei guida la band alternandosi al pianoforte e all’arpa: è l’inizio di un lungo viaggio musicale verso la trascendenza.
Nel frattempo Coltrane mette a fuoco anche la sua filosofia e la sua religiosità. Grazie alla musica riallaccia i fili di un discorso amoroso e spirituale interrotto dalla morte del marito. Comincia a ragionare in termini sincretistici tra il cristianesimo evangelico, i Veda e la religione dell’antico Egitto con il suo culto dei morti e le sue leggende sulla creazione dell’universo e la sua fine.
Ptah, l’amatissimo
Il suo terzo album, Ptah, the El Daoud (Ptah, l’amatissimo) prende proprio ispirazione dalla divinità egizia Ptah, il creatore, l’unico dio che non è stato generato da nessuno e che, con il potere della parola, ha dato origine all’universo. In principio era il verbo anche per gli antichi egizi. Sulla copertina compare un grande scarabeo al cui interno vediamo Ptah nel suo caratteristico sarcofago e la pelle verde e una serie di simboli egizi, tra cui due sfingi. Per Alice Coltrane Ptah, l’amatissimo, è simbolo sia di creazione artistica sia di purificazione: è il principio che l’ha guidata attraverso la guarigione e le prove che ha dovuto superare. Nella religiosità di Alice Coltrane la creazione musicale è un atto di purificazione (come le hanno insegnato i Veda) e un atto di testimonianza (come le ha insegnato il gospel con cui era cresciuta). Sedersi in una stanza e cominciare una sessione con i suoi musicisti è una pratica sia artistica sia spirituale. Ancora una volta tutte le composizioni sono sue.
Le registrazioni si tengono nello studio di casa Coltrane, a Dix Hill. E l’atmosfera è calda e domestica: appena la puntina si appoggia sul disco il primo suono che sentiamo è quello della stanza. I musicisti sono concentrati e raccolti e il silenzio è rotto dal contrabbasso di Ron Carter, che dà il tempo di marcia che caratterizza Ptah, the El Daoud, la composizione che dà il titolo all’album. E poi entrano gli altri: Pharoah Sanders al sax tenore, Joe Henderson, anche lui sax tenore, e Ben Riley alla batteria. Alice Coltrane dirige tutti dal pianoforte. Nelle prime, tiepide recensioni di questo album che alle nostre orecchie oggi suona impeccabile nelle intenzioni quanto nell’esecuzione, veniva detto che Alice mancava dell’autorevolezza del marito, si faceva fatica quasi a riconoscerla come bandleader. Ed Cole, nella sua recensione sulla rivista Down Beat, scriveva: “Sembra incredibile che un gruppo così pesantemente segnato dal defunto John Coltrane non si dimostri capace di mettere insieme un album. Non è che questa non sia buona musica, lo è. Ma non arriva a mostrare il potenziale enorme dei singoli solisti: sembra che ciascuno smorzi il suo talento per fare spazio a quello dell’altro”.
Cole nella sua critica forse un po’ misogina nota però una cosa interessante: Alice Coltrane non è una bandleader nel senso classico (e prettamente maschile) del termine, non crea competizione tra i solisti, come si faceva nelle big band degli anni trenta e quaranta e negli ensemble be-bop degli anni cinquanta, ma apre uno spazio sicuro e accogliente in cui ogni musicista può esprimere se stesso seguendo un tema suggerito. L’approccio all’improvvisazione è libero e sereno: è un viaggio anzitutto spirituale che i musicisti stanno compiendo insieme e a nessuno è richiesto di correre più veloce o di fare sfoggio di chissà quale virtuosismo. Gli strumenti sono colori su una tela e il pennello è mosso con ferma gentilezza da una bandleader che non ha bisogno di mettere redini o freni a nessuno.
Intelletto e trascendenza
I due sassofonisti superstar Pharoah Sanders e Joe Henderson sono stati scelti da Coltrane proprio per il loro approccio diverso, “Joe è più intellettuale”, scrive lei stessa nelle note dell’album, “mentre Pharoah è più astratto, più trascendentale”. I due sono tutt’altro che rivali in queste sessioni, hanno semplicemente ognuno il suo colore. Per tutto l’album Henderson è registrato sul canale sinistro mentre Sanders è sul canale destro. Ascoltandolo a tutto volume con le due casse si ha una sensazione di dialogo da due punti diversi dello spazio e di una soddisfacente pienezza. Per me che sono sordo dall’orecchio sinistro l’ascolto in cuffia si è rivelato un’esperienza bizzarra: è un po’ come guardare un quadro di Kandinsky senza poter vedere i blu e gli azzurri. E non dico Kandinsky a caso, visto che anche lui dava un grande valore simbolico e spirituale ai colori.
Turyia & Ramakrishna è la composizione più bella dell’album: è il più classico dei blues e Coltrane lo sviluppa al pianoforte accompagnata dalla batteria delicata e volubile di Ben Riley. È la tradizione del blues riletta attraverso l’estetica del jazz modale della fine degli anni sessanta, ma non c’è mai una dissonanza o uno strattone, è un lavoro di una delicatezza e di un equilibrio magistrali. Quando entra anche il contrabbasso di Ron Carter il terzetto è completo e il pezzo galleggia lento, pensieroso e paziente verso la sua conclusione. Una conclusione che, secondo la stessa Coltrane, dovrebbe suggerire la voce di un dio buono che ci sussurra all’orecchio se siamo pronti a partire per tornare a casa.
Il tempo di girare il disco e Alice Coltrane abbandona il pianoforte per passare all’arpa. E Sanders e Henderson posano il sax per prendere il flauto. Blue Nile ha qualcosa d’impressionista nel modo in cui l’arpa dà delicatamente il tema da sviluppare e il tempo agli altri musicisti. Se, come dice Alice Coltrane, il pianoforte è l’alba e l’arpa è il tramonto, qui sembra di vedere scorrere un grande fiume al crepuscolo con l’azzurro che si fa sempre più scuro e il sole calante che si riflette sull’acqua. In questo modo di usare i colori e la luce Alice Coltrane sembra sfiorare Claude Debussy. Nel pezzo finale, Mantra, si chiude un cerchio: tutti i musicisti tornano al punto di partenza e riprendono i loro ruoli. Ora la simmetria interna di Ptah, the El Daoud è chiara: il primo pezzo si specchia nel quarto e il secondo nel terzo; Alice Coltrane ha creato un microcosmo, un ciclo che si apre con una marcia e si chiude con una preghiera.
Ptah, the El Daoud è stato a lungo dimenticato. Non ha avuto recensioni troppo positive e per lungo tempo non è stato ristampato. Ha avuto la sfortuna di essere uscito tra A monastic trio, il suo debutto, e Journey in Satchidananda, forse il suo album di spiritual jazz più compiuto e riconosciuto. È importante riascoltarlo, non solo per l’assoluta bellezza di pezzi come Turyia & Ramakrishna, ma anche per l’equilibrio e la sapienza del linguaggio musicale di Alice Coltrane che qui, per la prima volta, spiega davvero le ali.
Il lavoro di Alice Coltrane di questo periodo è stato seminale per intere generazioni di musicisti. Non solo jazz ma anche soul e hip-hop. Il musicista elettronico Flying Lotus, pronipote della stessa Alice Coltrane, in un brano del suo album Cosmogramma, intitolato Drips // Auntie’s harp, ha campionato proprio l’arpa suonata dalla prozia nel pezzo Blue Nile. E l’ultima grande collaborazione di Pharoah Sanders è stata, giusto un anno prima di morire, quella con il musicista elettronico britannico Floating Points nello splendido album Promises, registrato con la London Symphony Orchestra nel 2021.
Alice Coltrane
Ptah, the El Daoud
Impulse!, 1970
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