Un posto al sicuro da esplosioni, attentati, violenze. Un posto senza caos, filo spinato e gas lacrimogeni alle frontiere. Un posto dove non muori mentre stai bevendo un bicchiere di vino al bar o ascoltando il concerto del venerdì sera. Anche perché un bar non c’è, né un bicchiere di vino, né tantomeno musica e balli.

È la “dolce vita” al tempo dello Stato islamico (Is), descritta dal film postato dalla filiale Is della regione di Aleppo il 2 febbraio. È il contrario di quello che sta succedendo nella nostra Europa, presa nella morsa della paura, dell’instabilità, della crisi dei rifugiati: mentre nel califfato si fa la spesa al sicuro, i mercati sono affollati e traboccanti di cibi prelibati, ci si scambiano sorrisi e pacche sulle spalle. La dolce vita non sta più nelle strade alcoliche e dissolute dell’Europa, ma nelle piazze ordinate e halal delle città controllate dall’Is.

Il video si intitola proprio così, Dolce vita (Hayat tayba): dopo un montaggio che alterna il terrore delle strade di Parigi alla stabilità sorniona del califfato, il filmato presenta uno scenario bucolico, surreale. Che a leggere la scritta dorata in arabo, in alto a destra dello schermo, interrotta a tratti dalla sventolante bandiera nera dell’Is, viene quasi da ridere. Un riso amaro però: ma scusa, vuoi farmi credere che questa è la regione di Aleppo? Questo bosco fitto di alberi verdi, questa barchetta che dondola serena con una bambina paffuta che rema, mentre suo padre, tale Abu Shahid “il belga”, racconta guardando in camera, in una lunga inquadratura di cinema verità, quanto è bella, quanto è dolce la vita al tempo dello stato islamico?

In una sequenza ancora più surreale “il belga” pesca e fa immersione, insieme ad altri uomini barbuti. E siccome la vita al tempo del califfato è dolce, la natura premia concedendo ogni sorta di prelibatezze, pesci belli e succulenti, che poi vengono rosolati sul fuoco mentre si prepara tutti insieme la cena. C’è una fraternità, una specie di caloroso cameratismo, un sapore dei bei tempi andati in questa dolce vita made in Is. Anche quando si imbracciano i fucili. Dopo aver cucinato, gli uomini barbuti si trasformano in mujahidin, e in sottofondo scatta il rap in inglese: “Siamo i soldati che combattono giorno e notte, i soldati di dio sono più che pronti poiché temono soltanto l’onnipotente”.

L’Is ha colto un aspetto fondamentale della cultura della rete: la sua assenza di centro, che poi è la moltiplicazione dei centri

Non è un caso se la videoproduzione dell’Is alterna immagini di stabilità, sicurezza, aria familiare a quelle di battaglie e violenza indicibile. La doppia identità di organizzazione che si fa stato offrendo assistenza sociale (molti foreign fighters europei hanno citato il sistema di welfare per spiegare il loro entusiasmo per il califfato) e allo stesso tempo di armata del terrore, è la strategia su cui il gruppo costruisce il suo successo. Video di mercati festosi e ospedali funzionanti, alternati a battaglie ed esplosioni alla Grand theft auto. La cultura dei videogame 3d più spinti combinata alla nostalgia per il welfare perduto.

Oltre alla miscela di medioevale e moderno, malinconia dei bei tempi andati e immaginario ipertecnologico, i media dell’Is hanno colto un aspetto fondamentale della cultura della rete: la sua assenza di centro, che poi è la moltiplicazione dei centri. Accanto ad Al Hayat Media, il produttore audiovisivo ufficiale del califfato, il gruppo ha fatto proliferare video spontanei, confezionati in autonomia dalle wilayat, le province su cui si regge l’amministrazione del califfato. Come un franchising, le wilayat seguono lo stile della casa madre, ma sembrano libere di postare i loro contenuti, nella modalità diffusa e virale dei social network.

Sono anni luce lontani da Bin Laden che appariva – unico leader autorizzato a parlare per Al Qaeda – in video spartani, lentissimi e rigorosamente in arabo classico. Nei social media dell’Is, mentre Aleppo posta la sua Dolce vita, Mosul risponde con Sbarazzarsi degli apostati. Un video crudissimo in cui un boia francese ammonisce: “Le cose sono cambiate, eravate oppressori e ora siete oppressi. Aspettatevi da noi qualcosa che vi farà dimenticare l’11 settembre e anche gli attentati di Parigi”. Intanto quattro uomini in tuta arancione vengono uccisi in un’esecuzione incrociata, in un grand guignol che termina sui loro cadaveri mentre lo sfondo si dissolve in un drammatico bianco e nero.

Il contagio virale

Questi contenuti che schizzano da una parte all’altra della rete, battuti e ribattuti dall’economia dei like e share di internet, sono la schizofrenia dell’Is, perfettamente in linea con la schizofrenia della rete. Mentre i governi del mondo occidentale si scervellano per sorvegliare i social network, tracciare movimenti online, fare cyber pattugliamenti per sventare il prossimo attentato, le comunicazioni dell’Is si moltiplicano nella rete senza alcun bisogno di essere criptate o nascoste. Perché si nutrono dell’essenza stessa di internet: il contagio virale, la diffusione decentralizzata, l’assenza di autorità, il caos anarchico. E traggono vantaggio dalle contraddizioni del capitalismo delle comunicazioni: per Google, Facebook e sorelle più circolazione di contenuti equivale a più soldi. E non importa tanto che tipo di contenuti: soprattutto se sono ammiccanti e veloci come i mujatweet, o bucolici in stile National Geographic, come Dolce vita.

Se poi i termini di servizio di YouTube cancellano video di sgozzamenti e violenza, ci penserà l’Internet archive a offrirgli asilo. Nato per impedire che il patrimonio digitale “sparisca nell’oblio”, anche questo progetto figlio dell’internet libertario, democratico e gratuito, è incappato suo malgrado nella trappola dell’Is: quella delle schizofrenie del nostro tempo.

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