Piero Calamandrei sosteneva che la scuola è il luogo in cui avviene il miracolo della trasformazione dei sudditi in cittadini. Il grande giurista era convinto che una vera cittadinanza la si ha solo quando si possiedono consapevolezze, cultura, linguaggio e strumenti tali da poter ragionare e scegliere in autonomia. Sapeva bene che non si tratta di un miracolo, ma di un lavoro impegnativo che richiede a chi insegna costanza, persuasione e anche una certa audacia. Maia, in quinta primaria, dopo aver letto il mito della caverna di Platone, commentò convinta che bisogna avere paura dell’ignoranza. E il suo compagno David aggiunse che “è meglio che tu pensi la tua”, sostenendo che l’autonomia di giudizio è il bene più prezioso da costruire, per liberarci dalle costrizioni che ci assoggettano a un senso comune non scelto.
Non c’è vera cittadinanza, dunque, se non è libera di assumere la forma della cittadinanza attiva. Ciò che non si poteva immaginare, al tempo di Calamandrei, era l’esistenza di italiani totalmente privi di cittadinanza formale, perché a caratterizzare il nostro paese nel dopoguerra, per più di trent’anni, furono le grandi migrazioni verso l’estero e le ondate migratorie interne, da sud verso nord, mentre era quasi inesistente la presenza d’immigrati in Italia.
Nonostante la grande povertà e le forme di discriminazione diffuse, nei primi anni della repubblica non c’erano dunque nel paese abitanti privi del diritto di voto e di altri diritti. È con l’arrivo di milioni di immigrati con figlie e figli, in prevalenza extraeuropei, che la questione della cittadinanza ha investito la scuola in forme del tutto nuove. A chi viene da lontano o nasce qui, figlia o figlio di famiglie di altre latitudini, la scuola è chiamata a offrire le migliori opportunità così da arricchire la conoscenza della lingua italiana per comunicare e studiare, ma anche, al tempo stesso, predisporre un contesto capace di accogliere nuove differenze, cercando di contrastare sul nascere ogni forma di discriminazione.
Torna al centro così la questione della cittadinanza, ma con un diverso grado di complessità. Alla cittadinanza sostanziale, data dal sentirsi di appartenere a una stessa comunità, va necessariamente affiancata la cittadinanza formale, capace di rendere cittadini italiani a pieno titolo i figli degli immigrati, cioè detentori degli stessi diritti e doveri degli altri loro compagni. Ma poiché invece, ancora oggi, è negata loro una piena cittadinanza, la scuola si trova nel cuore di una contraddizione lacerante.
Sessant’anni fa don Lorenzo Milani, nella sua Lettera ai giudici scriveva: “Non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate”.
Nel ragionare con i suoi ragazzi su come confrontarsi con la legge, dunque con la storia, il priore di Barbiana proponeva come forma di “amore costruttivo” l’obiezione di coscienza, accettando di pagare tutte le conseguenze del trasgredire. Di fronte a una legge palesemente ingiusta, che spinge in una condizione di non cittadinanza una parte consistente delle nostre allieve e allievi, come dovremmo comportarci noi docenti oggi?
Ignavia e opportunismo
“Noi insegnanti guardiamo negli occhi tutti i giorni le oltre 800mila bambine e bambini, ragazze e ragazzi figli di immigrati che, pur frequentando le scuole con compagne e compagni italiani, non sono cittadini come loro. Se nati qui, dovranno attendere fino a 18 anni senza nemmeno avere la certezza di diventarci, se arrivati qui da piccoli (e sono poco meno della metà) non avranno attualmente la possibilità di godere di uguali diritti nel nostro paese. Ci troviamo così nella condizione paradossale di doverli educare alla ‘cittadinanza e costituzione’, seguendo le Indicazioni nazionali per il curricolo che dal 2012 sono legge dello stato, sapendo bene che molti di loro non avranno né cittadinanza né diritto di voto. Questo stato di cose è intollerabile. Come si può pretendere di educare alle regole della democrazia e della convivenza studentesse e studenti che sono e saranno discriminati per la loro provenienza?” .
Così scrivevamo nell’autunno 2017, in un appello che insieme a Eraldo Affinati e molte e molti altri proponemmo al mondo della scuola. Fu sottoscritto da decine di gruppi e associazioni e, in poche settimane, raccolse le adesioni di più di 20mila insegnanti, che si aggiunsero a un’altra raccolta di firme consegnata a Pietro Grasso, allora presidente del senato.
Due anni prima, nell’ottobre 2015, la camera aveva approvato una legge che introduceva il cosiddetto ius soli temperato, una legge molto prudente che intrecciava il diritto alla cittadinanza per nascita allo ius culturae, che prevedeva di poterla ottenere per chi avesse frequentato per un quinquennio le nostre scuole.
Quella legge fu tenuta ferma al senato per due anni per l’ignavia e l’opportunismo dei partiti di centrosinistra, che l’avevano promossa durante i governi Renzi e Gentiloni. A pochi mesi dalla conclusione della legislatura, quando si stava arenando definitivamente, diverse associazioni di italiani senza cittadinanza chiamarono alla mobilitazione. Ci sembrò allora naturale aderire a quella richiesta di attenzione perché la scuola, da sempre, è il principale luogo di costruzione di una cittadinanza condivisa e universale, che sia insieme sostanziale e formale.
Saltatori di muri
Come noto il parlamento si sciolse e ancora una volta non fu approvata alcuna legge che consentisse un rapido e sicuro accesso alla cittadinanza a chi era nato in Italia o ci era arrivato da piccolo.
Per proseguire quella mobilitazione l’autunno successivo un centinaio di associazioni del settore educativo e sociale diedero vita a un tavolo che si volle chiamare Saltamuri, in omaggio ad Alexander Langer, il leader ecologista e pacifista che in più occasioni sottolineò il ruolo fondamentale dei saltatori di muri nel praticare, sperimentare e diffondere una capillare ed efficace arte del convivere.
Da allora ci sono stati quattro governi decisamente contrari a modificare la legge ingiusta sulla cittadinanza e nelle scuole l’insegnamento di quella che si chiamava “cittadinanza e costituzione” è cambiato: per legge si è tornati all’educazione civica, disciplina con voto da insegnare 33 ore l’anno, nelle secondarie non si sa ancora bene da quali docenti.
Senza aspettare e valutare i risultati delle sperimentazioni in corso, il ministro dell’istruzione Giuseppe Valditara ha promulgato nuove linee guida risultate così approssimative, scritte male e lacunose da essere state bocciate dal consiglio superiore della pubblica istruzione.
Come già detto, sette anni fa intorno al tema degli italiani senza cittadinanza ci fu un certo fermento nelle scuole e nacque un movimento di insegnanti per la cittadinanza che da allora condivide esperienze e sperimentazioni in un’omonima pagina Facebook. Oggi che è ritornato in discussione quello che ora è chiamato ius scholae, è più che mai necessario impegnare il mondo dell’educazione in una lotta per l’uguaglianza dei diritti, cominciando dal sostenere un referendum, certo parziale ma necessario, che propone di abolire la legge che allungò da cinque a dieci anni la condizione di residenza continuativa per richiedere la cittadinanza.
Una strada difficile
Se si vuole unire l’impegno quotidiano per dare pari dignità a tutte e tutti a una mobilitazione politica che si proponga di cambiare leggi ritenute ingiuste c’è un grande lavoro culturale da fare, coinvolgendo in prima persona ragazze e ragazzi. Oggi gran parte delle classi delle nostre scuole dell’infanzia, primarie e secondarie presentano elementi sempre più forti di disomogeneità, non solo per lingua o provenienza geografica. Il nodo culturale che ogni insegnante è chiamato ad affrontare riguarda allora quale atteggiamento avere di fronte al grande lavoro che questa condizione di partenza comporta.
Se ne vediamo solo la fatica, che indubbiamente esiste, siamo spacciati. Se invece pensiamo che chi popola le nostre classi guardi il mondo e gli ambiti culturali che è chiamato a incontrare e studiare da punti di vista diversi, questa straordinaria disomogeneità può trasformarsi in una risorsa preziosa per conoscere e capire meglio la realtà che ci circonda.
“L’immigrato sospetta la realtà”, scrisse anni fa Salman Rushdie, che aveva cognizione profonda della questione. Quel sospetto ha una doppia valenza. Può prendere la strada della diffidenza e arrivare fino all’estraneità e a un isolamento che può portare a scelte integraliste e a vedere nemici dappertutto, o può aprire a una visione critica delle cose e sospettare, ad esempio, che dietro alle indubbie distanze di lingua, visioni del mondo, atteggiamenti e comportamenti, ci sia qualcosa di più profondo che ci accomuna. Ci sia quell’“elementarmente umano” di cui parlava l’antropologo Ernesto De Martino, che permette l’incontro, il dialogo e a volte anche controversie e conflitti tra diverse posizioni, capaci tuttavia di metterci in discussione e dunque di arricchire di altre angolazioni il nostro sguardo.
In fondo cosa fanno gli scienziati se non sospettare continuamente ciò che crediamo di conoscere della natura e della realtà, per cercarvi altro che ancora ci nasconde? Cosa sospettano artisti e matematici, musicisti e letterati? La fatica è grande, certo, ma forse un gruppo riunito per studiare, e dunque confrontarsi con il non sapere, è nelle condizioni migliori per sospendere il giudizio e accogliere con serenità la propria ignoranza.
Io non so e non capisco ogni cosa della matematica come non so e non riesco a capire perché tu ti comporti e pensi in modi diversi dal mio. Non so tante cose della storia e delle storie che popolano il mondo e non so quali immagini produca la tua lingua materna, diversa dalla mia, nei tuoi pensieri e nei tuoi sogni.
Se tutte e tutti, e io che insegno per primo, abbiamo il coraggio di confrontarci con il nostro non sapere e con l’ignoto che ci circonda, senza fare finta di non vederlo, siamo potenzialmente nella condizione migliore per aprirci agli altri. Un punto di vista diverso dal mio, che ha altre memorie, altri antenati e paesaggi alle spalle, permette a lei o a lui di confrontarsi con un testo, un teorema, una musica o una costellazione in modi diversi dai miei, aiutandomi a scoprire che la cultura è sempre relazione, intreccio di relazioni, o non è.
Ma per realizzare tutto questo, per tentare di trasformare le nostre classi in comunità, anche se provvisorie, capaci di ascolto reciproco, è necessario studio, impegno e convinzione da parte di noi insegnanti. È necessario provare curiosità per ciascuna e ciascuno dei nostri allievi, perché solo testimoniando la nostra sincera curiosità verso ogni differenza possiamo pretendere uguale apertura da parte di tutte e tutti.
Io non posso accettare di avere in classe ragazze e ragazzi cittadini insieme a ragazze e ragazzi che cittadini non lo sono e non lo saranno per anni, o forse mai, perché costretti ad affrontare labirinti burocratici che discriminano e negano loro diritti fondamentali. È per una ragione educativa e perfino didattica che dobbiamo ribellarci in ogni forma a leggi che negano la cittadinanza, perché quella condizione mina alla base il nostro mestiere.
Nella concretezza della nostra pratica quotidiana, lontano da ogni retorica e da ogni semplificazione, dobbiamo operare per dimostrare che davvero incontrarci e imparare tra diversi, in classi disomogenee, ci migliora tutte e tutti. E migliora complessivamente tutta la scuola, se noi insegnanti siamo in grado di cooperare, scambiarci suggerimenti e metterci in discussione. È un compito complesso, certo, per questo è così difficile insegnare.
La premessa e condizione per questa scommessa educativa è che ciascuna e ciascun allievo abbia pari dignità, riconosciuta dal resto del gruppo e da tutte e tutti noi insegnanti.
Le classi sono oggi davvero un laboratorio del futuro. Per questo ci dobbiamo battere perché bambine e bambini, ragazze e ragazzi che frequentano le scuole del nostro paese divengano cittadini italiani a pieno titolo, da ora. Perché “i diritti”, come più volte è stato detto, “o sono universali o si chiamano privilegi”.
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