“Sradicheremo Twitter. Non m’importa di quello che dirà la comunità internazionale. Ognuno sarà testimone della potenza della repubblica turca”. Sono parole di Recep Tayyip Erdoğan, pronunciate a marzo durante un comizio. Il rapporto annuale di Reporters sans frontières (Rsf) sull’attacco alla stampa nel mondo arriva proprio nei giorni in cui il presidente turco ha deciso l’arresto di 23 persone, tra cui alcuni giornalisti e il direttore del più importante giornale del paese, Zaman.

È dal 1995 che Rsf pubblica il suo rapporto. Nel 2014 sono stati uccisi 66 giornalisti, 720 dal 2005. Siria, Striscia di Gaza, Ucraina e Iraq i posti con più vittime. Sono 119 i giornalisti rapiti nell’ultimo anno, 178 quelli in carcere, 139 i reporter obbligati a lasciare il loro paese, 853 quelli arrestati o fermati, 1.846 minacciati o aggrediti. Ma sono numeri che non raccontano l’evoluzione degli ultimi anni: i giornalisti sono uccisi in modo sempre più violento, con decapitazioni, impiccagioni, torture. La loro uccisione è diventata uno strumento di propaganda, per spaventare e spingere al silenzio. L’attacco alla libertà di stampa, però, oggi passa anche attraverso una censura sempre più forte sul web.

In Cina l’anno scorso il governo ha deciso che, quando un testo giudicato falso o diffamatorio viene letto su internet da più di cinquemila persone, chi l’ha scritto rischia fino a tre anni di prigione. Un modo perverso per rendere più efficace la censura. Il rapporto annuale sulla libertà in rete di Freedom house mette Iran, Siria, Cina, Cuba ed Etiopia in cima alla lista dei paesi più autoritari. Ha scritto Vauhini Vara sul New Yorker commentando il rapporto di Freedom house: “Forse il fatto sorprendente non è che la rete stia diventando meno libera, ma che non sia successo prima”.

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