A.B. Spellman, Quattro vite jazz

Minimum fax, 267 pagine, 16 euro

Negli anni sessanta, con il bebop, il jazz cambiò. Da musica commerciale, buona per le sale da ballo con grandi orchestre, divenne una musica più ricercata, per piccole formazioni e piccoli club.

Questo lo rese, da un lato, un genere musicale più nobile; dall’altro ridusse sul lastrico moltissimi musicisti, che si trovarono a dover lavorare in condizioni più dure, con meno soldi e meno potere. Molti di loro semplicemente smisero. Alcuni invece provarono a rilanciare il discorso che i

boppers avevano cominciato, ricercando musiche sempre più difficili, rivendicando il proprio essere artisti e al tempo stesso la loro alterità al circuito artistico mainstream (e bianco).

Questo libro, scritto nel 1966 da un giornalista, storico e poeta afroamericano, nacque dal tentativo di spiegare al pubblico di allora che quattro di quei musicisti – Cecil Taylor, Ornett Coleman, Herbie Nichols e Jackie Mclean – stavano costruendo una nuova classicità, e che la loro faticosa resistenza contro gli impresari e i discografici andava sostenuta e incoraggiata.

L’impegno della scrittura, la convinzione di raccontare una storia dalla parte giusta, rendono la lettura avvincente anche per chi non è un appassionato di jazz ma vuole capire come l’arte e la società si influenzano reciprocamente lasciando sempre spazio, a chi abbia buone ragioni, per l’invenzione di forme e contenuti nuovi.

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