Francesco De Gregori ha pubblicato il suo ventunesimo album in studio. Si intitola Vivavoce ed è uscito il 10 novembre 2014.
Una mattina d’inverno del febbraio 1977 Francesco De Gregori ha avvicinato le labbra a un registratore e ha salutato tutti, nel senso che ha detto “addio alla musica”. Il registratore era quello del giornalista della Stampa che lo stava intervistando: “Ho chiuso con la musica, direi in modo definitivo. Non ho intenzione di incidere altri dischi, forse farò ancora qualche concerto in autunno, ma sarà per l’ultima volta. Non lavoro più da oltre un anno: non faccio più dischi, non tengo più concerti, le canzoni che trasmettono alla radio sono tutte vecchie. Ora il processo di ripensamento è terminato, e ho maturato questa decisione: lascio”.
Tra quella dichiarazione e oggi ci sono di mezzo: un ragazzo borghese di ventisei anni che ha l’insofferenza di fianco e Rimmel alle spalle; ventuno album in studio; lo stronzo conclamato di tanti ritratti giornalistici che risponde malvolentieri alle domande; quindici dischi registrati dal vivo; l’autore schivo che “si concede con non-curante graziosità a una copertina di Sorrisi e Canzoni sponsorizzata dalla Coca-Cola, rilancia con La storia la canzone politica, e subito la piazza come sigla di Domenica in” (Michele Serra, 1985); dodici raccolte; uno che per sua stessa ammissione ha copiato pari pari Bob Dylan, che ha copiato Guthrie, che ha copiato
Walt Whitman.
Quella che segue è una Frankenstein interview, quarant’anni di interviste smontate e rimontate insieme. Ogni domanda modificata, è modificata a fin di bene.
Interviste lette: 24.
Periodo: 1974-2014.
Lunghezza: quindicimila caratteri.
Tra i giornali: l’Unità, La Stampa, Corriere della Sera; la Repubblica; IL.
Tra le firme: Paolo Frajese, Francesco Pacifico, Renato Nicolini, Ferdinando Adornato, Aldo Cazzullo.
Com’era la tua famiglia?
Una famiglia di bibliotecari, di stampatori. La libreria è il negozio dove mi fermo più volentieri, perché sono un bibliofilo. Mi piace l’oggetto libro, l’odore della stampa. Ho un grande amore per la narrativa, che supera quello per la poesia, a sua volta maggiore di quello per la saggistica. Ma sono amori che convivono.
La Stampa, 1987
Qualcuno suonava?
Il primo musicista della famiglia, in realtà, è stato mio fratello. Fu lui a recuperare dalla cantina una vecchia chitarra del nonno e di mettersi a suonare. Io, più piccolo di lui, lo vedevo trafficare con questo strumento. Senza di lui, difficilmente mi sarei avviato su questa strada, gli devo molto.
Famiglia Cristiana, 2012
È per la musica che hai smesso di studiare filosofia?
Ho smesso per motivi di pigrizia universitaria, non ho smesso di studiare filosofia, non ho smesso di leggere o smesso di frequentare l’università. Fra l’altro solo per quanto riguarda la laurea, altrimenti gli esami li ho dati tutti regolarmente.
L’Unità, 1983
I tuoi come la presero?
Si stupirono quando cominciai a guadagnare e si resero conto che la musica sarebbe diventata la mia vita.
Famiglia Cristiana, 2012
Tre cose che hanno lasciato il segno in quel periodo?
Se mi obblighi a dirne solo tre ti rispondo L’Orlando furioso, Il Vangelo secondo Matteo, Bob Dylan.
L’Espresso, 1985
A chi facevi sentire la tua musica in quegli anni?
Agli inizi andai da Califano; lui mi disse: “Sono cose belle, ma non le venderemo mai. Ma siccome sei bravo (mi dava del tu, io gli davo del lei) a mettere versi in musica, perché non scrivi delle cose diverse?”. Io lo ringraziai e me ne andai via delusissimo (in motoretta). Quando tornai all’attacco fu con le stesse cose, né più né meno.
Ciao 2001, 1974
Finirono in Alice non lo sa e Rimmel. Perché ti misero in crisi?
Dopo i vari passaggi di commercializzazione, di quello che volevo dire alla gente non arrivava nulla. La crisi è iniziata proprio con il successo di Rimmel. Improvvisamente mi sono accorto che la mia vita cambiava, si faceva diverso il rapporto con la musica e con la gente che mi ascoltava. Stavo diventando uno strano tipo di divo della canzone e il rapporto tra me e gli altri, tra me e la realtà non era più possibile se non mediato dal personaggio De Gregori.
La Stampa, 1977
Allo stesso tempo, ti accusano di essere commerciale.
Non saprei, è difficile dare dei giudizi per chi vive questo mestiere in prima persona. Dare opinioni è il mestiere dei giornalisti. Io credo che solo dopo molti mesi dall’uscita di un disco si può dire se era commerciale oppure no.
La Stampa, 1989
La donna cannone lo è.
In un certo senso, anche quello è stato un po’ un incidente. Certe aperture melodiche mi imbarazzano. Mi autocensuro, perché si sta sul filo del rasoio… Non so perché lì non sia scattata l’autocensura, ma dopo ero imbarazzato, anche le prime volte che la cantavo, e tuttora non è la mia canzone preferita.
La Repubblica, 1988
Le tue canzoni più famose non sono quindi le tue preferite?
So che alcune di queste vecchie canzoni sono riuscite benissimo e ringrazio Dio di averle scritte. Ma non mi danno quella botta emozionale e ci devo pensare bene per ricostruire il momento e la situazione in cui sono nate.
Tv Sorrisi e Canzoni, 2013
Alcuni ragazzi della sinistra extraparlamentare ti accusarono di averle scritte solo per fare soldi. Era uscito Buffalo Bill (1976) e ti “processarono” durante un concerto a Milano. Come andò?
Erano quaranta in tutto. Ero già nel mio camerino, e questi mi vennero a prendere minacciandomi, dicendomi “o torni sul palco con noi per farti fare il processo politico, oppure…”. Fu un’aggressione, non una contestazione. Ma adesso non mi stupisco più, fu uno dei primi sintomi di tutta una serie di violenze che doveva coinvolgere il mondo dei giovani.
L’Unità, 1978
Il sessantotto, a differenza loro, non ti aveva influenzato?
Non ho fatto il sessantotto e il sessantotto non ha fatto me. Ho visto dei miei amici impazzire, nel senso che sostenevano cose che dopo quindici giorni negavano. Non so per quale motivo sia rimasto abbastanza freddo: non ho mai simpatizzato per le frange alla sinistra del Pci, anche quando era normale farlo.
Intervista rilasciata a Paolo Frajese, 1979
Sei sempre stato critico con la sinistra.
Continuo a pensarmi di sinistra. Sono nato lì. Sono convinto che vadano tutelate le fasce sociali più deboli, gli immigrati, i giovani che magari oggi nemmeno sanno cos’è il Pd. Sono convinto che bisogna lavorare per rendere i poveri meno poveri, che la ricchezza debba essere redistribuita; anche se non credo che la ricchezza in quanto tale vada punita. E sono a favore della scuola pubblica, delle pari opportunità, della meritocrazia. Tutto questo sta più nell’orizzonte culturale della sinistra che in quello della destra. Ma secondo lei cos’è oggi la sinistra italiana? È un arco cangiante che va dall’idolatria per le piste ciclabili a un sindacalismo vecchio stampo, novecentesco, a tratti incompatibile con la modernità. Che agita in continuazione i feticci del “politicamente corretto”, una moda americana di trent’anni fa, e della “Costituzione più bella del mondo”. Che si commuove per lo slow food e poi magari, en passant, strizza l’occhio ai No Tav per provare a fare scouting con i grillini. Tutto questo non è facile da capire, almeno per me.
Corriere della Sera, 2013
Non hai simpatizzato molto neanche con gli intellettuali, perché?
Ci sono scrittori, poeti, intellettuali che amano solo la parte spettacolare del loro lavoro. Quelli che vanno a Domenica in con il libro sottobraccio. Quelli che ogni volta che fanno una cosa sembra che chissà cosa hanno scoperto. Quelli che firmano appelli per salvarsi la coscienza. Gli intellettuali blanditi, coccolati.
L’Espresso, 1985
Alla base c’era forse l’equivoco dell’artista impegnato a tutti i costi. Come si è diffuso tra i cantautori?
Verso l’inizio degli anni settanta… Fin lì, levati alcuni esempi fantastici tipo Gino Paoli o Endrigo, il mondo della musica leggera era fatto di autori e di interpreti, c’erano i grandi autori di canzoni, i grandi parolieri, poi c’erano gli interpreti che potevano essere Iva Zanicchi, Caterina Caselli o Mina. E poi c’era una pattuglia di autori che andava da Pallavicini a Mogol. C’era poi Paoli, De André che era poco conosciuto: alcuni che venivano definiti cantautori. Paoli veniva identificato con un ruolo abbastanza lugubre, sempre con gli occhiali da sole, esistenzialista, cultura francese… Però con me e Bennato e Venditti e Baglioni, coevi proprio come nascita, improvvisamente i cantautori diventano la parte dominante del mercato e dell’attenzione. Prima dell’attenzione del pubblico giovanile, poi del mercato. Quindi si forma una categoria di cantautori, che sono la musica emergente italiana, e in quel momento proprio si volta pagina: la musica leggera italiana volta pagina. Per questo i cantautori poi diventano un simbolo. Infatti ogni mio coetaneo, nel ‘71, nel ‘72, voleva suonare la chitarra ed esprimersi attraverso la scrittura di una canzone, e questo lo facevano tantissimi. Ci fu una fioritura di cantautori e il pubblico giovanile era attratto dai cantautori come oggi sono attratti dall’hip hop o dal rap, dal fenomeno musicale e culturale che sembrava più diretto e girava pagina con il mondo di Iva Zanicchi, di Gianni Morandi, di Caterina Caselli… E improvvisamente divennero appartenenti al passato musicale.
IL - Il Sole 24 Ore, 2013
Hai conosciuto e lavorato con molti di loro. Con Venditti com’è andata?
Tra me e Antonello la collaborazione cominciò in maniera abbastanza strumentale. Eravamo insieme, e con molta altra gente, al Folkstudio, un locale di Roma che era aperto ai non professionisti. Finimmo insieme in una casa discografica, ma allora fare il primo disco non era facile come invece mi sembra che sia ora. Le spese erano forti, e così – pur di farlo, quel benedetto primo disco – dopo un anno di anticamera, nel corso del quale abbiamo fatto solo provini, ci siamo decisi a farlo insieme. Ma non è che io e Antonello abbiamo un mondo musicale molto compatibile nel senso che non credo che la musica che faccio io abbia molto a che vedere con quella che fa lui e viceversa. Così, quando ognuno prese la sua strada, il “duo” finì, perché nessuno aveva interesse a collaborare con l’altro.
Intervista rilasciata a Paolo Frajese, 1979.
Dalla?
Conoscevo Dalla per le sue grandi canzoni, ma in Com’è profondo il mare vidi la svolta autoriale, lo scrittore di canzoni. All’epoca (di Banana Republic, ndr) eravamo più una truppa, sempre insieme, ma sul palco non ci incrociavamo quasi, ognuno aveva la sua band e cantava le sue canzoni, facevamo finta di suonare insieme.
Vanity Fair, 2010
De André?
Sai che la moglie di De André – non Dori Ghezzi, la moglie storica – disse una volta una cosa divertentissima. Si riferiva al periodo in cui io avevo lavorato con Fabrizio per scrivere un album insieme, e lei era venuta a trovarci all’inizio di questo lavoro e poi è tornata alla fine, dopo un mese… In Sardegna, in una casa di Fabrizio in Sardegna. E lei a distanza di anni disse: “Lasciai De Gregori e De André che erano De Gregori e De André, poi alla fine De André cantava come De Gregori”. E lui non era attratto da me, quanto dai miei maestri: da Dylan. Dylan glielo feci un po’ conoscere io; lui conosceva il mondo francese, quindi conosceva Cohen perché essendo canadese veniva da là; però Dylan lo guardava un po’ con sospetto. Credo di avergli rotto le scatole per un mese con Dylan, gli feci sentire tutto… Il motivo per cui c’eravamo incontrati era che lui aveva sentito Desolation row fatta da me, la voleva rifare, quindi poi la traducemmo insieme. Addirittura io partecipai alla session dove venne registrata, quindi mi chiamò a Milano per suonare la chitarra e l’armonica su Desolation row. Lui era molto forte con queste note basse, impressionanti. Un po’ lasciò perdere perché si lasciò affascinare dal canto.
IL - Il Sole 24 Ore, 2013
Springsteen?
Bruce ha un suono molto più educato, è un bravo ragazzo. Io musicalmente sono più sporco. Springsteen è un furbacchione del rock. Io suono gli strumenti come vanno suonati. Si sente che lui lavora in uno studio. Sarà chiaro a tutti che io non sono un ammiratore di Springsteen ma di Dylan. Due mondi diversi. Dylan è musicista sbilenco, dissonante, innovativo. Springsteen ha buona volontà, ha studiato ma la cosa finisce lì. Chi ha conosciuto Dylan o Woody Guthrie 30 anni fa, oggi non si può far affascinare da Springsteen.
Corriere della Sera, 2005
Dylan?
Alla fine Dylan è stato il più importante, perché da lui ho compreso come vanno scritte le canzoni, dal punto di vista dello stile, dell’invenzione, della libertà espressiva. Per me e per qualsiasi musicista, è un punto di riferimento imprescindibile.
Corriere della Sera, 2011
A scuola ormai si studiano, quei testi. Se tu fossi un liceale che impressione ti farebbero i tuoi?
Probabilmente chiederei di sentire i dischi… Non è un caso che non faccio libri di poesie. Questi testi hanno un valore collocati all’interno di una musica; se li leggi così sono piatti, mentre la poesia non lo è mai, si muove da sola sul piano della pagina. Ma i miei testi sono nati per essere ascoltati, non letti. Presi così manca la musicalità — che è data ovviamente dall’interpretazione e dalla musica — gli “a capo” sono legati al ritmo della canzone, non c’è punteggiatura. Se la poesia è comunicazione, e io lo credo, dai film di Fellini ai telegiornali, lo sono. Ma se per poesia intendiamo Pascoli o D’Annunzio, allora certamente no.
La Stampa, 1982
Se tu scrivessi narrativa, che tipo di scrittore saresti?
C’è una bellissima canzone dei Beatles che si intitola Paperback writer, scrittore di romanzi tascabili. Dice: “Chissà se leggerete il mio libro… vorrei fare lo scrittore di romanzi da leggere in treno. La storia è la storia sgangherata di un uomo sgangherato: sua moglie è invadente e non lo capisce. Suo figlio lavora in un quotidiano, è un buon posto ma presto lo lascerà”. Ecco, la verità è che io vorrei essere uno scrittore di libri tascabili da leggere in treno. La musica è un alibi per diffondere quello che scrivo.
Ciao 2001, 1974
Giuseppe Rizzo è un giornalista di Internazionale. Ha scritto per il Foglio, IL, Nuovi Argomenti. Su Rivista Studio ha curato altre Frankenstein interview.
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