Ian McEwan, Miele
Einaudi, 354 pagine, 20 euro
Ci piaceva molto negli anni ottanta il giovane McEwan del Giardino di cemento e dei racconti sull’infanzia – una male amata infanzia senza innocenza – ma dopo la tensione adulta, ancora crudele e provocatoria, di Lettera a Berlino e Cani neri, ci sembrò che la sua vena si affievolisse e che si limitasse a offrire prodotti narrativi d’ottima fattura ma di scarsa profondità, placati e commerciali nella ricerca di storie intriganti ben raccontate.
Libri pensati per adulti tranquilli e soddisfatti, per la “tribù dei lettori” che affolla fiere e festival, più pigri e benpensanti dei loro autori di riferimento.
Miele parla di spionaggio come Greene e Le Carré, ma senza far luce su nessun mistero del complesso presente internazionale e con toni quasi da commedia sentimentale; narra il rapporto tra una bella fanciulla, modesta intellettuale assunta dallo spionaggio per finanziare le arti in funzione, al tempo, antisovietica, e il suo arruolatore e addestratore, una storia che ha basi vere e note (i soldi erano della Cia e finirono anche in tasche italiane). In cambio non si chiedeva molto, solo un pezzettino d’anima.
Dedicato al sopravvalutato e snob Hitchens, Miele è un buon romanzo che si accontenta di volar basso e non s’interroga e non inquieta ma risponde e diverte. Ci si chiede se sarebbe piaciuto al McEwan di trent’anni fa.
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