Salvatore Mannuzzu, Snuff o l’arte di morire
Einaudi, 204 pagine, 14,50 euro
La nostra odierna letteratura italiana è spesso finto-giovane per la consolante superficialità imposta dal mercato, e questo romanzo non solleciterà l’attenzione dei più. Ma non è un male essere scrittore per pochi, come Mannuzzu, che si è formato, si direbbe, su Dostoevskij o sul romanzo francese più austero, a confronto con i problemi di fondo, filosofici e morali e religiosi.
Un vecchio professore d’anatomia che parla spesso di suicidio e il suo ex giovane collaboratore, orbo di un occhio, che lo incalza perché vorrebbe filmare la sua morte: un dialogo interrotto da una conclusione inattesa. L’evocazione dei morti di una vita, le persone care o meno care ma alle quali si è stati legati da vincoli stretti o strettissimi.
Un mondo di fantasmi, il ricordo di umane miserie (borghesi, ma di tutti), di intrecci prima vitali ma presto mortali e che hanno spesso come sola via d’uscita l’uccisione di sé, non dell’altro.
Un mondo senza angeli (“non ce n’è più, sono tutti volati via”) e dove Dio si manifesta, per il protagonista, nel verme di un carciofo: “Il suo paradosso; anzi il segno, proprio il segno che lui ci dà, della imperscrutabile contumacia; dicendoci, anche col dimenarsi inverecondo della larva d’un insetto, che quando ogni cosa si corrompe, si distoglie dal suo fine, si danna, lui che è tutto non ci manca: che l’amaro di ogni perdita è il suo sapore”.
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