Gentile bibliopatologo,
ho un problema: fatico a riporre i libri sugli scaffali una volta che li ho terminati. Anzi non ci riesco proprio e restano in giro per casa per settimane, mesi, anni. Sospetto che una parte non trascurabile del problema sia di natura spirituale: alla sola idea di riporre un libro che mi è piaciuto sullo scaffale si affaccia subito il rimpianto. È come starsene lì a veder scendere nella profondità della terra la salma di una persona cara con cui avremmo voluto fare ancora tante belle cose insieme. Come possiamo imparare a convivere serenamente con la sensazione sgradevole che in mezzo a tutto ciò che di bello ci è capitato di leggere possa anche esserci sfuggito qualcosa di importante che non abbiamo saputo cogliere?
–BC
Caro BC,
entriamo, la notte, in un gabinetto di figure di cera. O nel reparto di abbigliamento di un grande magazzino, dopo l’orario di chiusura, tra tutti quei manichini. Come dici? Hai paura? E ti credo che hai paura: non è un caso se in luoghi di questo genere hanno ambientato fior di racconti fantastici e di film dell’orrore. Ma che cos’è che ci inquieta, in un museo delle cere? Il filosofo José Ortega y Gasset ha dato una risposta che trovo molto penetrante: quei manichini ci turbano perché non c’è modo di ridurli a meri oggetti. “Quando li percepiamo come esseri viventi, si fanno beffe di noi rivelando il loro cadaverico segreto di manichini; ma se li vediamo come finzioni, sembrano palpitare irritati”. Da vivi, sembrano morti; da morti, sembrano vivi. E tra questi due poli il pendolo della nostra psiche oscilla costantemente, senza trovare riposo.
Ora invece entriamo in una biblioteca – sempre di notte, mi raccomando. Osserviamo i libri allineati sugli scaffali. Ebbene, sono animati o inanimati? Non è così facile dirlo. Quando li soppesiamo tra le mani sono senza dubbio oggetti materiali, docili e inerti. Sono intercambiabili con altri oggetti della stessa forma e dello stesso spessore: come zeppa per un tavolo traballante, non c’è differenza tra Le notti bianche di Dostoevskij, un pezzo di cartone ripiegato e uno scarto di falegnameria. Ma diremmo lo stesso mentre siamo immersi nella lettura? In quelle ore, il libro è un essere magicamente animato, più animato del mondo esangue che si estende oltre i margini a precipizio della pagina. Arriva però il momento della fine. Il libro deve tornare allo stato di cosa, un ingombro qualunque su uno scaffale. Ma la seconda volta non è come la prima. Quando lo tirammo giù dalla libreria lo portammo in vita; ora dobbiamo accompagnarlo alla morte.
I tuoi sentimenti – il rimpianto, la riluttanza all’addio, perfino un serpeggiante senso di rimprovero per non aver fatto, con il defunto, tutto ciò che avresti potuto – sono un distillato di psicologia del lutto. A ben vedere, una costante antropologica dell’umanità è l’ambivalenza dei superstiti nei confronti del cadavere non ancora sepolto. In quei giorni di interregno, in presenza di un corpo percepito come non più animato ma come non ancora inanimato, prendono forma le angosce più intollerabili, e i riti funebri servono a dominarle. Tra i popoli di cacciatori e raccoglitori, per esempio, il cadavere è sbrigativamente ridotto a “cosa”, e a cosa pericolosa e contagiosa di cui sbarazzarsi. Nelle civiltà agricole, al contrario, il morto è trasformato in antenato, dunque in una presenza dalle virtù protettrici perennemente aleggiante sulla città dei vivi.
Compiti per casa: procurati un bel libro di Alfonso di Nola, La morte trionfata. Antropologia del lutto, e leggi il capitolo Comportamenti intorno al cadavere avendo cura di sostituire mentalmente “cadavere” con “libro”, “morte” con “fine lettura” e “sepoltura” con “ritorno in libreria”. Vedrai che molto, se non tutto, torna. E forse, immaginando la tua libreria come un altare domestico di Lari e di Penati di carta, l’addio a un libro appena finito ti riuscirà meno tormentoso.
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