Ieri il presidente Sergio Mattarella ha deposto una corona di fiori sulla tomba del milite ignoto. La Rai ha rivoluzionato i suoi palinsesti. Le edicole traboccavano di pubblicazioni storiche.
La grande guerra, dopo cento anni, fa ancora notizia. Spesso anche audience, per non parlare poi del boom del turismo legato alla ricorrenza. Per le celebrazioni del centenario (e soprattutto per l’anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia) siamo stati inondati di lettere dal fronte, ricordi di trincea, approfondimenti biografici sui principali protagonisti di quella vicenda.
Nomi come Verdun o Caporetto tornano a essere familiari. Rileggiamo Ernest Hemingway o Erich Marie Remarque. La storia è di nuovo protagonista.
Dovrei essere contenta. Fare salti di gioia. In parte lo sono: mettere al centro la storia è qualcosa che faccio nella mia pratica quotidiana di donna e scrittrice. Eppure queste celebrazioni mi hanno lasciato un senso di vuoto.
Manca qualcosa. Al solito, manca il colore.
Possibile che dopo cento anni la storia della prima guerra mondiale sia raccontata (soprattutto in Italia) ancora come una storia completamente bianca?
Certo sono stati degli europei “caucasici” ad averla dichiarata, ma non sono stati i soli a combatterla. L’aggettivo “mondiale” ci dovrebbe far capire che quella carneficina ha riguardato il mondo intero.
Il pittore svizzero Eugène Burnand lo sapeva bene. Noto per le sue pitture di argomento religioso, ci ha lasciato una delle più interessanti testimonianze sulla prima guerra mondiale. Colpito dalla presenza nel conflitto di persone provenienti da ogni angolo del globo, decise di realizzare una sorta di catalogo illustrato di chi fu coinvolto. Tra il 1917 e il 1920 Burnand prese in mano matita e pastelli per creare un primo ciclo di ottanta ritratti a cui successivamente ne aggiunse altri venti. I ritratti furono esposti per la prima volta a Parigi al Musée du Luxembourg e dalle mostre venne fuori anche un bel catalogo con la prefazione di Louis Gillet. Oggi gli originali si trovano al Musée de la légion d’honneur a Parigi.
Navigando tra i volti di Burnand ho capito che della grande guerra sappiamo davvero troppo poco. Mi colpiscono nei ritratti gli occhi, i capelli, la postura dei soldati.
Ed ecco che mi appare Gualco Giuseppe di Pozzolo Formigaro, in provincia di Alessandria. Ha un’aria tranquilla, paesana. Ha sopracciglia definite, labbra sottili. Mi rattrista pensare che forse è morto in un campo di battaglia. Poi in alto sullo schermo incrocio lo sguardo schivo di Ahmed Abokob, originario di Gibuti, terra di somali, ritratto con l’elmetto di trincea. Mi chiedo se ce l’ha fatta a tornare a casa tutto intero. O se anche lui è morto per una guerra che di fatto non lo riguardava e che forse non ha capito nemmeno tanto bene.
I volti si mescolano. Chan Mohamed viene dal Beluchistan, Basile Totmianine dalla Siberia, Mohamed Ben Nadroc dalla Tunisia, Lai Van Chau da Saigon, Jaffory Zacharie dalla Martinica, Lé Naplong dal Vietnam. Certo, anche quella di Burnand è una catalogazione “coloniale”, le parole accanto a quei volti non a caso esaltano le qualità guerriere dei soldati del sud del mondo. Si celebravano le doti dei subalterni per poi usarli come carne da macello nei campi di battaglia. Ma quei volti, ritratti con grande intensità dal pittore svizzero, ci aiutano nononostante tutto ad addentrarci in una complessità che le celebrazioni odierne ignorano.
Asia e Africa erano di fatto possedimenti europei. E durante la prima (ma anche la seconda) guerra mondiale sono diventati serbatoi di soldati da mandare al fronte. Ci sono state ribellioni contro questa pratica ingiusta, ma in generale furono in tanti a essere arruolati più o meno volontariamente. Le immagini che abbiamo in mente della grande guerra riguardano soprattutto le trincee europee, luoghi di morte e sofferenza.
Ma la guerra in suolo d’Africa non fu meno dura. Con la conferenza di Berlino del 1884 l’Europa si era spartita il continente africano in aree di influenza. Ed è proprio ai confini di queste zone che durante la grande guerra sono state combattute le battaglie più cruente. È lì che francesi e inglesi hanno braccato le truppe tedesche (non molti lo ricordano, ma anche la Germania aveva dei possedimenti coloniali, persi dopo la sconfitta). Ed è per questo che le zone degli attuali Togo, Namibia, Camerun, Tanzania – all’epoca territori tedeschi – furono travolti dalla guerra.
Il sito World War One in Africa e soprattutto l’account twitter legato a questo sito@WWIAfrica presentano immagini e resoconti di africani (e non solo) coinvolti nel conflitto. Attraverso le loro foto possiamo farci un’idea di cosa ha significato la grande guerra per un non europeo. Scopriamo immagini di cui non sospettavamo l’esistenza, come per esempio il porto di Algeri pieno all’inverosimile di soldati algerini pronti a partire per la Francia o quella dei soldati camerunesi mandati al fronte senza scarpe dagli alti ufficiali tedeschi. Ogni tweet è una rivelazione. E così veniamo anche a sapere che nella guerra il Madagascar ha perso 2.400 uomini e che nella sola Francia lavoravano o combattevano per la metropoli circa 450mila africani.
Per l’Italia, come sottolinea lo storico Nicola Labanca nel suo Oltremare, storia dell’espansione coloniale italiana (Il Mulino) “le vicende coloniali giocarono un peso limitato […] non essendo a contatto con nessuno dei territori di Berlino, Roma non poté partecipare ad alcuna operazione militare contro le colonie tedesche”. Però è da registrare un curioso e inquietante episodio, raccontato da Marco Lenci, di migliaia di soldati coloniali libici che dovevano essere impiegati nelle Alpi come truppe di rinforzo e che invece finirono internati in un campo. L’Italia aveva molti problemi a controllare il territorio libico. Aveva represso nel sangue numerose rivolte e incarcerato in veri e propri lager parte della popolazione civile. Un regime durissimo che applicò anche ai suoi “ascari” per paura di atti di sedizione in teatro di guerra. I libici furono caricati su dei piroscafi, internati e di fatto dimenticati in Sicilia, nelle due cittadine di Floridia e Canicattini Bagni, dove furono sottoposti a un regime durissimo e inumano.
In generale pregiudizi, razzismo, sfruttamento sono stati il pane quotidiano per i non europei durante la prima guerra mondiale. Ma di tutto questo si è parlato poco in occasione del centenario. Per fortuna alcuni lavori hanno mostrato questo aspetto, come l’ottimo servizio speciale in tre parti andato in onda su Al Jazeera in cui lo scrittore tunisino Malek Trikici ha mostrato la grande guerra da una prospettiva araba o come il documentario della Bbc Martial races dello storico anglonigeriano David Olusoga, che ha raccontato la storia dei soldati dimenticati dell’impero britannico, provenienti soprattutto dall’India.
Le celebrazioni attuali da questo punto di vista sono, soprattutto per l’Italia, un’occasione perduta. Potevano costituire un punto di partenza per una riflessione più ampia e universale sulla guerra e sulle sue conseguenze. In tempi come questi, in cui le nostre società stanno diventando sempre più meticce, una visione d’insieme non solo era necessaria, ma addirittura indispensabile.
La prima guerra mondiale quindi non è bianca, ma non è nemmeno nera. Semplicemente è nel mezzo. Va analizzata e celebrata attraverso tutta la sua gamma di colori e di storie. In un’Europa che ha visto combattenti provenire da tutte le terre emerse non è peregrina l’idea che il milite ignoto accomuni davvero i caduti (militari e anche civili) di ogni guerra, quindi anche i vari Mohamed o Qi Feng; tutti i musulmani, ebrei, sikh e cristiani coinvolti nel conflitto. La storia è complessa e spesso più colorata di quanto pensiamo.
Non dobbiamo vedere il passato attraverso un’unica lente, ma diversificare il più possibile i punti di vista per capire cosa è successo cento anni fa e fare di tutto affinché non si ripeta mai più. Oggi nel mondo la pace è in pericolo e le guerre aumentano, ma il passato può aiutarci a illuminare le falle del nostro presente. Come diceva il grande poeta e scrittore martinicano Aimé Césaire: “La mia concezione dell’universale è quella di un universale ricco di tutto il particolare, di tutti i particolari, coesistenza e approfondimento di tutti i particolari”.
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