Una foto di Benjamin Netanyahu sul pavimento della sede del Likud, dopo i festeggiamenti per la vittoria a Tel Aviv, il 18 marzo 2015. (Amir Cohen, Reuters/Contrasto)

E ora? Benjamin “Bibi” Netanyahu ha vinto una scommessa azzardata, usando ogni mezzo necessario. Ha fatto convocare elezioni anticipate per sbarazzarsi dei centristi e tornare a essere il vero padrone della destra israeliana, e ci è riuscito, rosicchiando voti ai suoi alleati della destra radicale. Voleva fare un referendum sulla sua persona e la sua leadership, tutta fondata sulla “sicurezza d’Israele” e sulla volontà di bloccare di fatto ogni negoziato con i palestinesi e qualsiasi accordo con l’Iran sul nucleare. E molti israeliani l’hanno votato. Ora è il leader vincitore che avrà l’incarico di formare un governo e, nonostante il caotico sistema multipartitico israeliano, pare proprio che il suo tentativo sia destinato al successo.

È una cattiva notizia per il mondo intero.

Netanyahu ha detto chiaramente, per la prima volta, che non permetterà la nascita di uno stato palestinese, rinnegando gli impegni presi con i partner europei e con Washington. Ha portato lo scontro con la Casa Bianca sul nucleare iraniano fino al congresso statunitense, causando una rottura con l’amministrazione Obama che non ha precedenti tra i due paesi. Ha puntato tutto sulla paranoia e le paure degli ebrei israeliani: il suo appello a urne aperte agli elettori ad andare a votare, perché la sinistra stava portando “gli arabi a votare in massa”, ha mostrato un atteggiamento di rifiuto verso gli arabi israeliani (che sono il 20 per cento della popolazione e in teoria cittadini a pieno titolo dello stato ebraico).

Proprio quando, per la prima volta, una lista araba unitaria è diventata il terzo partito del paese, il primo ministro ha chiesto agli ebrei di considerare nemici interni un milione e mezzo di concittadini arabi. Bibi ha poi evocato un complotto internazionale contro di lui e accusato l’Europa e in particolare “i paesi scandinavi” di finanziare i suoi avversari e di volerlo mandare a casa, dopo mesi di irritazione delle cancellerie europee per i suoi insistenti inviti agli ebrei europei a trasferirsi in Israele.
Il problema è capire cosa succede adesso. Dopo una campagna elettorale del genere il profilo del premier israeliano è cambiato. Non è più quello del “falco” di destra che sosteneva di saper essere pragmatico e centrista.

Il Netanyahu che ha vinto queste elezioni del 2015 lo ha fatto a destra della destra, e oggi è un premier estremista. Bisogna certo vedere come sarà composta la sua maggioranza alla Knesset, il parlamento israeliano. Ma l’ipotesi più probabile sembra essere una coalizione con i partitini della destra radicale, le forze religiose e il partito moderato del transfuga del Likud Moshe Kahlon.
Se così fosse, cosa si può attendere il mondo dal nuovo governo israeliano?

Israele non è mai stato così isolato sulla scena internazionale come negli ultimi mesi del governo Netanyahu. E ora si ripresenta con lo stesso premier, in versione radicalizzata, dopo una rottura traumatica con la Casa Bianca, e proprio mentre il negoziato sul nucleare iraniano procede nella direzione di un accordo, certo difficile ma non impossibile.

Netanyahu davanti al congresso statunitense ha dichiarato che Israele avrebbe agito anche da solo (militarmente), di fronte a un accordo con Teheran pericoloso, secondo lui, per l’esistenza stessa dello stato ebraico. Un’ipotesi che potrebbe aprire scenari apocalittici.
È difficile poi prevedere cosa potranno fare i palestinesi di fronte a un premier che apertamente nega il loro diritto all’autodeterminazione e che si dichiara pronto a continuare la costruzione di nuove colonie in Cisgiordania. E anche Stati Uniti ed Europa difficilmente potranno ignorare l’atteggiamento di un governo che rifiuta ogni negoziato e continua la sua occupazione coloniale.

In un Medio Oriente scosso dalle guerre in Siria e Iraq, da milioni di profughi, dalla nascita del califfato del gruppo Stato islamico, dalla rivalità tra sciiti e sunniti, dall’emergere dell’Iran come potenza regionale, dalle rivalità tra i sauditi e gli egiziani da una parte e la Turchia e il Qatar dall’altra, l’ultima cosa di cui si sentiva il bisogno era quella di un Israele ancora più isolato ed estremista.

È proprio vero, come scrive Le Monde oggi nel suo editoriale, che in Medio Oriente i pessimisti hanno sempre ragione.

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