Il presidente statunitense Joe Biden ha dichiarato che gli Stati Uniti manterranno “a lungo termine” la propria capacità antiterroristica di neutralizzare la minaccia posta dai gruppi di estremisti islamici in Afghanistan.
Senza truppe sul campo, senza operazioni di raccolta d’intelligence nel paese e senza un solo alleato con confini condivisi, questo ambizioso sforzo volto a fermare i piani che prendono di mira l’occidente non avrà vita facile. E lo renderà molto più difficile la presenza diffusa delle organizzazioni che operano nel territorio oggi ufficialmente controllato dai taliban.
Ciò di cui un gruppo estremista ha più bisogno è un luogo sicuro dove poter pianificare, organizzarsi, reclutare, elaborare una strategia e raccogliere risorse. Senza di esso pochi ribelli e terroristi sopravvivono, e tantomeno hanno successo. Il Pakistan ha offerto una cosa simile ai taliban, aiutando in maniera decisiva il loro sforzo ventennale, coronato dal successo questa settimana. Anche Al Qaeda ne ha avuto uno tra il 1996 e il 2001, e fu la prospettiva di perdere il rifugio sicuro offerto dall’Afghanistan che spinse molti dei suoi dirigenti più esperti a opporsi al progetto di Osama bin Laden di lanciare gli attentati dell’11 settembre contro gli Stati Uniti.
Controllo locale
Al Qaeda era stata costretta a lasciare l’Afghanistan dopo la guerra del 2001 ma è lentamente tornata nel paese. Oggi non può neanche lontanamente contare sull’ampia infrastruttura di vent’anni fa, quando gestiva una decina di campi d’addestramento. I suoi combattenti, tra i duecento e i cinquecento, sono invece dispersi in tutto il paese. Molti provengono da Al Qaeda in Asia del sud, un gruppo affiliato formato nel 2014 da reclute provenienti da Pakistan, India e Bangladesh per rafforzare le attività del gruppo nella regione. Altri hanno combattuto con i taliban, con i quali hanno “relazioni strette”, a quanto hanno riferito alle Nazioni Unite i servizi d’intelligence.
Ayman al Zawahiri, l’attuale leader dell’organizzazione, ha evitato gli attacchi a lunga distanza contro l’occidente da quando ha assunto i poteri nel 2011, preferendo concentrarsi sulla creazione di una presenza sul territorio in luoghi come il Sahel, la Somalia, lo Yemen e, con un successo ridotto, in Siria. Ma le cose potrebbero cambiare.
A differenza di Al Qaeda, l’Iskp continua a concentrarsi su attacchi a lungo raggio contro il “nemico lontano” in occidente
Forse l’attore più inquietante del tripudio di estremismo che è ormai diventato l’Afghanistan è il gruppo Stato islamico Khorasan (Iskp), una fazione che si richiama al nome storico di una porzione di territorio che si estende dall’Iran all’Himalaya occidentale. L’Iskp è stato fondato nel 2015, quando il gruppo Stato islamico voleva estendersi territorialmente dalla sua roccaforte di Iraq e Siria verso oriente. Il tentativo non è andato a buon fine. I taliban si sono opposti all’espansione dell’Iskp. E lo stesso hanno fatto Al Qaeda, le forze del governo afgano e gli Stati Uniti. Come prevedibile, il gruppo si era piegato alla potenza di fuoco incrociato di cui era oggetto, e le sue precoci avanzate erano state rapidamente vanificate.
Ma negli ultimi mesi l’Iskp sembra godere di nuovo slancio, avendo effettuato una serie di operazioni letali con la sua caratteristica brutalità. Nei primi quattro mesi del 2021 la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) ha registrato 77 attentati rivendicati dall’Iskp o attribuiti al gruppo, che ha preso di mira i suoi classici obiettivi: musulmani sciiti, donne e stranieri, oltre che personale militare o addetto alle infrastrutture civili.
A differenza di Al Qaeda, l’Iskp continua a concentrarsi su attacchi a lungo raggio contro il “nemico lontano” in occidente, ed è probabile che la cosa diventi una priorità più urgente adesso che i suoi “nemici vicini” più immediati – il governo di Kabul e i suoi protettori statunitensi – se ne sono andati. È molto probabile che i taliban cerchino di evitare tali operazioni ma non potranno sorvegliare ogni angolo di un paese così aspro ed esteso, soprattutto dato che in buona parte è effettivamente governato da intermediari del gruppo che decidono autonomamente chi fa cosa e dove.
I combattenti stranieri
Esiste poi un’ampia gamma di gruppi islamisti militanti, nessuno dei quali pone una grande minaccia da solo, ma le cui attività potrebbero destabilizzare ulteriormente la regione, o perlomeno facilitare l’attacco di un altro gruppo o addirittura di un individuo isolato. Le Nazioni Unite ritengono che ci siano tra gli ottomila e i diecimila stranieri attualmente attivi nei gruppi armati in Afghanistan.
Molti autori di attentati terroristici in Europa e altrove, negli ultimi decenni, sono stati in Pakistan per ricevere un addestramento. Si è trattato spesso di un passaggio decisivo, non tanto per le conoscenze impartite quanto per il rafforzamento del radicalismo prodotto da tale esperienza. I taliban hanno cercato perlomeno di regolamentare, se non di limitare, la presenza dei cosiddetti combattenti stranieri (foreign fighters). Ma è improbabile che riescano a evitare simili viaggi in futuro.
I taliban hanno riportato sotto la propria ala quanto resta della maggior parte dei gruppi islamisti radicali d’Asia centrale di stanza nel nord dell’Afghanistan, a quanto pare inviando addirittura del personale per sorvegliare i valichi di frontiera. Ma il Movimento islamico del Turkestan orientale, composto da uiguri in fuga dalla Cina sudorientale e determinati a combattere con violenza la repressione della loro fede e cultura da parte di Pechino, appare più esperto e attivo.
Molto preoccupante appare poi la complessa combinazione di gruppi pachistani con base in Afghanistan orientale. Questi sono occupati quasi interamente nel combattere battaglie locali ma i taliban pachistani, o Ttp, hanno un lungo passato di brutale violenza. E lo stesso vale per altri gruppi estremisti che hanno varcato il confine afgano dal Pakistan.
Tutti questi gruppi seguono l’ideologia estremista nota agli analisti come “salafismo jihadista”, una fusione tra versioni ultraconservatrici dell’islam sunnita praticate nel golfo Persico e una conversione più recente e radicale, secondo la quale è dovere di ogni musulmano combattere individualmente e collettivamente contro la “tirannia”, ovunque essa si trovi. Questo genere di pensiero contrasta con le antiche tradizioni popolari del credo islamico in Afghanistan e persino con le correnti reazionarie seguite dai taliban.
Gli osservatori sostengono che il successo del gruppo Stato islamico in Siria e in Iraq, anche se l’esperienza del califfato si è conclusa nel sangue e nel fallimento, abbia ispirato alcuni giovani afgani, diffondendo ulteriormente il salafismo.
Se così fosse i taliban, giunti al potere, rischiano di dover fare i conti a loro volta con dei ribelli, di cui fanno parte non solo i fedeli all’ex governo sostenuto dagli Stati Uniti, ma anche quanti ritengono i loro nuovi governanti dei venduti.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato dal Guardian.
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