Barack Obama ha lanciato i primi attacchi aerei contro il gruppo Stato islamico (Is) in Iraq l’8 agosto 2014. Poco più di un mese prima Abubakr al Baghdadi aveva proclamato il cosiddetto califfato da Mosul e la violenza jihadista aveva colpito la popolazione, soprattutto gli yazidi e i cristiani. Gli Stati Uniti, rimasti passivi durante l’offensiva lampo dell’Is, in giugno, arrivata alle porte di Baghdad, alla fine era intervenuta solo per salvare dall’avanzata jihadista il Governo regionale del Kurdistan, nel nord dell’Iraq. Washington si è quindi mossa solo quando sono stati minacciati non solo gli arabi, indipendentemente dalla loro confessione, ma anche gli alleati curdi dell’occidente.

Da allora, molto gradualmente, si è costituita una coalizione anti Is nella quale gli Stati Uniti restano sia i principali contributori sia i decisori finali. I bombardamenti sull’Iraq sono stati estesi nel settembre del 2014 al territorio siriano, e il mese dopo al Pentagono viene messa in piedi una task force per un’operazione congiunta, Inherent resolve. I 70 stati che ufficialmente partecipano alla coalizione lo fanno in modi molto diversi, e talvolta simbolici. Il motto della coalizione è “One mission, many nations” (una missione per molte nazioni).

Fino al 9 agosto 2017, la coalizione ha condotto, secondo il Pentagono, 24.566 bombardamenti di cui 13.331 in Iraq e 11.235 in Siria. L’ong Airwars, che si è specializzata nell’identificazione delle vittime dei raid, stima in almeno 4.887, e forse fino 7.528, il numero di civili uccisi dalla coalizione in Iraq e in Siria durante questo periodo. Le perdite civili sono aumentate notevolmente durante la recente battaglia di Mosul. La coalizione inoltre ha fatto uso di bombe al fosforo bianco, che potrebbe configurarsi, secondo Amnesty international, come un crimine di guerra. Non è possibile valutare in maniera rigorosa le perdite tra le fila dell’Is, perché su questo la coalizione ha rilasciato dei numeri semplicemente deliranti (ventimila jihadisti uccisi nel primo anno di Inherent resolve e 25mila nel secondo). Ma il vero bilancio della coalizione è al di là di queste dispute sui numeri.

Una mobilitazione pericolosa
Alla coalizione sono serviti tre anni, tra cui nove mesi di feroci combattimenti urbani, per riconquistare Mosul, occupata dall’Is in pochi giorni nel giugno del 2014. E la città siriana di Raqqa , da dove era stata proclamata la nascita dell’Is nell’aprile del 2013, resta nelle mani dei jihadisti, anche se è circondata da tutti i lati. L’Is conserva ancora il controllo di diverse sacche di territorio iracheno, così come di gran parte della valle siriana dell’Eufrate. Una complessa mobilitazione internazionale contro lo Stato islamico non può che fare il gioco della propaganda.

Anche perché, cosa ancora più grave, gli Stati Uniti hanno deciso che la coalizione non si sarebbe appoggiata in nessun modo sulla popolazione locale, nonostante sia la prima vittima del terrore jihadista, ma su dei “liberatori” estranei alla sua comunità o alla sua lingua. In Iraq, le forze governative sono spesso accusate di abusi e sono appoggiate da milizie filoiraniane animate da un profondo odio antisunnita. In Siria, i gruppi rivoluzionari sono stati ufficialmente abbandonati da Washington a beneficio dell’ala locale del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), il movimento guerrigliero curdo nato in Turchia trent’anni fa.

L’intervento occidentale contro l’Is ha anche incoraggiato i curdi ad avviare un processo di indipendenza da Baghdad delle province del nord. In generale, la coalizione ha scavato più profondamente il fossato tra arabi e curdi (con il rischio molto serio di conflitto tra le milizie sciite e quelle curde in Iraq ) e tra sunniti e sciiti. Oltre a non esserci una risposta sostenibile alla sfida jihadista senza una stabilità politica in Siria e in Iraq, la coalizione ha complicato la ricerca ragionevole di una soluzione. Gli Stati Uniti, incapaci di decidere tra conciliazione e confronto con Teheran, hanno scelto di fatto di lavorare con l’Iran in Iraq e di limitarsi a contenerlo in Siria, continuando però ad attaccarlo in pubblico, provocando una confusione senza precedenti sul terreno.

Gli Stati Uniti hanno ufficialmente speso almeno 14 miliardi di dollari nel corso dei tre anni di operazioni della coalizione anti Stato islamico. Questo dà un’idea del costo esorbitante di questa campagna. E ciò, ovviamente, non tiene conto dei costi della ricostruzione, che sarà di miliardi per la sola città di Mosul. Non osiamo immaginare cosa si sarebbe potuto fare con così tanti soldi se fossero stati investiti nello sviluppo della Siria e dell’Iraq, impegnato a creare istituzioni democratiche. Ma Washington e i suoi alleati hanno preferito rattoppare l’autoritarismo iracheno, adattarsi alla dittatura di Assad e favorire l’espansionismo curdo. Tale politica è, non si risentano gli altri membri della coalizione, supremamente definita dalla Casa Bianca ieri sotto Obama, ora con Trump.

L’attacco a Barcellona il 17 agosto 2017 dimostra tragicamente il pericolo che rappresenta ancora l’Is. Avviene poco dopo che le autorità australiane sono riuscite a sventare un attacco contro un aereo di linea, teleguidato dall’Is dal Medio Oriente. Ma la minaccia terroristica rimane in gran parte astratta negli Stati Uniti, mentre è molto reale per i loro alleati. Il senso di urgenza che prevale in Europa di fronte a una tale minaccia non è quello che si sente oltre Atlantico. Il sito web della coalizione ha già annunciato bombardamenti anti jihadisti fino al dicembre del 2017: il che dimostra, se ce ne fosse bisogno, che nessuno nello stato maggiore di Washington prevede una vittoria a breve termine contro l’Is.

(Traduzione di Stefania Mascetti)

Questo articolo è stato pubblicato sul sito di Le Monde.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it