“Pensavo che fosse una straniera e che volesse chiedermi un’informazione. Invece fu subito chiaro che l’unica persona fuori posto lì ero io”. Comincia così l’esercizio sul “perdersi” mandato da Merry. Quel che segue è un vero e proprio racconto: una donna alla guida della sua auto viene fermata da un’altra donna che le si avvicina e bussa sul vetro.
Quando lei abbassa il finestrino, l’altra esclama: “Sono io”, e Merry capisce che si tratta dell’amante del marito. “Feci risalire il vetro con la stessa velocità con cui lo avevo abbassato; tenevo la testa ben dritta e sentivo la mia voce scandire con assoluta calma che non avevo nulla da dirle. Ripensandoci, mi accorgo che è stato nel momento in cui lei mi si è avvicinata con quella faccia tosta, per farmi capire quale posto occupavo sulla mappa dell’amore, che ho smesso di essere persa”.
Molti di voi hanno interpretato la parola “perso” in questo senso. Ci sono storie commoventi di come ci si sente persi quando muore una persona amata. Ros ha scritto degli anni in cui si è persa nella bulimia, mentre Sara descrive cosa prova a vivere una vita che non sente più sua: “La strada sembrava quella, ma lungo il percorso ho perso il senso del cammino, anzi non capisco più perché sto camminando”.
Blockhead racconta di una coppia che litiga per questioni di soldi, una sera per le strade di Dublino. Sul taxi, tornando verso casa, c’è un silenzio lugubre. “Entrambi stavamo pensando alla stessa cosa, ma le parole non ci uscivano di bocca. Dopo tutte le medicine, le iniezioni, i dosaggi angoscianti, i corridoi rimbombanti degli ospedali, i segnali chiarissimi dell’imminenza del suo ciclo, che ci rimaneva? Un taxi gonfio di silenzio e un utero vuoto”. Il termine “perso” non viene usato mai, però si capisce benissimo che cosa quei due abbiano perso.
Non tutti hanno usato la parola in senso metaforico e alcuni dei racconti legati al significato letterale sono altrettanto efficaci. Franca DM scrive di quando si è ritrovata senza soldi e senza documenti a Cracovia: “Mi rendo conto che lì non sono nessuno, nessuno sa chi io sia, nessuno sa dove io sia, e la sensazione di non avere identità è, lo so che sembra assurdo ma è così, euforizzante, liberatoria”.
Mirko C. rievoca un divertente equivoco: diretto a Baden, in Svizzera, si ritrova invece a Baden Baden, in Germania. Hannah scrive: “Un inverno mi sono persa. L’unico segno di vita era un filo di fumo, strappato e portato dal vento, laggiù in lontananza, e l’odore del legno bruciato che aleggiava nell’aria… e poi, sulla strada che s’inoltrava nella brughiera, comparve una figura: un uomo in piedi, che aspettava”.
È un brano breve ma carico di atmosfera; è impossibile leggerlo e non voler subito sapere quel che accadrà. Ed è questo l’elemento che tanti di voi hanno saputo catturare così bene: il dramma di essersi persi. Un romanzo che comincia con un personaggio smarrito in un luogo strano o sinistro è destinato a esercitare un fascino automatico sul lettore. E se pensate che sia un trucco usato solo nella narrativa più commerciale (nei thriller, nei romanzi horror o in quelli sui fantasmi), andatevi a leggere Bambini nel tempo di Ian McEwan: il suo racconto di un padre che perde la figlia in un supermercato è uno degli episodi più spaventosi e ossessionanti della letteratura contemporanea.
Il prossimo esercizio è il terzo e l’ultimo di quella che potremmo chiamare la serie autobiografica. Per molti versi è il più difficile perché può essere interpretato in un senso molto ampio. Voglio che scriviate un racconto su un momento in cui vi siete sentiti in trappola. Quasi tutti siamo stati vittime di un incidente e quasi tutti ci siamo sentiti persi. Pochi sono stati davvero in trappola, anche se mi aspetto di ricevere un certo numero di storie di persone rimaste chiuse in ascensore o in metropolitana. Alcuni di voi potrebbero anche esser stati imprigionati davvero, ma sono convinta che la maggior parte penserà a circostanze semplici in cui ha avuto la sensazione di essere in trappola: relazioni infelici o lavori sgradevoli. Ancora una volta, abbellitele dal punto di vista narrativo a vostro piacimento.
Qualunque sia il modo in cui intendete la trappola, prima che vi mettiate a scrivere voglio che pensiate a quale sensazione avevate: un profondo senso di claustrofobia, panico o rabbia, per esempio. Per farlo sarete costretti a rifletterci per un tempo più lungo rispetto a quello che impiegherete a scriverlo, e questa è un’ottima cosa. Andate a farvi una corsetta o un giro dell’isolato. Se si tratta di una storia del passato, considerate la possibilità di tirar fuori e sfogliare qualche vecchio album di foto, ripensando all’accaduto ma sentendovi liberi di ricostruirlo come più vi piace.
La prossima settimana vi spiegherò perché vi ho dato questi compiti autobiografici e come li porteremo avanti.
Internazionale, numero 635, 30 marzo 2006
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