Quando non avevo ancora pubblicato il mio primo libro, domandai a mia madre cosa avrebbe pensato se avessi scritto di sesso in modo esplicito. Nessun problema, mi rispose, quello che scrivevo era solo affar mio. E come la mettevamo con le scene violente?

Idem. E con la satira politica? Idem di nuovo. E se avessi sbeffeggiato tutti i valori in cui lei credeva? Niente da fare, ripeté mia madre senza tentennamenti: ero una donna adulta, e per uno scrittore nessun argomento è tabù. Poi, dopo una breve pausa, aggiunse piano: “Però mi auguro che non userai un linguaggio volgare”.

Manco a dirlo (scusami, mamma), il mio primo romanzo conteneva sesso, violenza, satira politica e – ciliegina sulla torta – anche un po’ di parolacce. Da allora, stranamente, non ho più sentito il bisogno di imprecare nei miei romanzi. E sapete perché? Perché ho superato quella fase.

Non sto cercando di vietare le parolacce – o il sesso e la violenza. Sta a voi decidere se sono davvero necessarie nei vostri testi. Ma spesso quando leggo un romanzo d’esordio e m’imbatto in certi termini, mi viene spontaneo un sorrisetto di condiscendenza e penso: “Oddio, com’è infantile!”.

Il sesso nel mio primo romanzo era sparso qua e là, in scene brevi, adatte alle situazioni affrontate dai personaggi. All’epoca pensavo che, essendo appropriato ai personaggi, fosse inevitabile includerlo nel libro. Ma è un ragionamento che non tiene. Infatti, non consideriamo incompleto il ritratto di un personaggio perché non sappiamo se sa nuotare o se gli piacciono i pomodori; quindi non c’è ragione per cui si debba per forza conoscerne i gusti sessuali. C’è un personaggio in un libro di David Lodge che dice: “I romanzi parlano tanto di sesso e poco di fare figli. Nella vita reale, tendenzialmente, succede il contrario”.

L’altro problema, quando si scrivono scene di sesso, è il rischio che il lettore smetta di leggere il romanzo in quanto tale e cominci a leggere esclusivamente le parti piccanti. Così il vostro lavoro sarà giudicato solo per come ve la cavate con le scene a luci rosse.

Quando uscì il mio primo libro, un tabloid pubblicò una critica furibonda intitolata “Perché le nostre giovani scrittrici sono così volgari e disgustose?”. Mi dispiace per i lettori che si sono precipitati a comprare il romanzo, dopo aver letto questa recensione; temo che siano rimasti delusi.

Non bisogna dimenticare, inoltre, che scrivere bene di sesso è difficilissimo; lo stesso vale per le scene violente, anche se io non condivido il binomio automatico tra sesso e violenza, come se fossero intrinsecamente e ugualmente spaventosi. Non è così, anche se sono tutti e due atti fisici e la fisicità di un personaggio, i suoi gesti sono spesso difficili da descrivere.

Un personaggio esce per andare a comprare il giornale: perché suona male scrivere “Uscì in strada” o “S’incamminò per la strada”? Perché è inutile. Partite subito con il paragrafo successivo: “All’edicola…”.

Stessa cosa se due personaggi s’innamorano: non è il caso di descrivere la prima volta che vanno a letto insieme. Provate, invece, con: “Dopo…” e raccontate che cosa si dicono dopo aver fatto l’amore, o cosa mangiano, o come si salutano. Tutte queste situazioni possono rivelarsi altrettanto allusive e perfino più erotiche.

Così come una scena di sesso esplicita rischia di distrarre dalla storia il lettore, spingendolo a osservare come ve la siete cavata con questo o quel dettaglio, anche le parolacce possono alterare l’equilibrio del vostro linguaggio.

Ed ecco che arriviamo al punto che c’interessa: lo stile letterario. Regola numero uno: una parolaccia sulla carta stampata ha lo stesso effetto di molte decine usate nell’intercalare quotidiano.

Basta scriverne una manciata per dare al lettore l’impressione che ce ne siano moltissime. Non so perché; forse perché in letteratura certi termini hanno conservato un impatto emotivo che nella vita reale hanno perso.

In ogni caso, se lo ritenete opportuno usatele, ma ricordatevi dell’effetto che possono suscitare: è proprio quello che cercate?

Questo ci riporta ad altre questioni stilistiche, come l’uso del dialetto o il discorso diretto, oppure alle nostre care amiche: le similitudini e le metafore. La prossima settimana citerò alcune di quelle che mi avete spedito.

Internazionale, numero 666, 02 novembre 2006

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