Gli incidenti di fronte al parlamento catalano non possono far dimenticare le questioni che gli indignati, con un ampio sostegno sociale, hanno sollevato davanti alle istituzioni politiche. La violenza non è solo da condannare: è anche stupida, perché potrebbe delegittimare una protesta e un dibattito molto importanti. Ma se si vuole davvero dialogare con chi ha il coraggio di dire in piazza quello che molti pensano in privato, allora bisogna isolare i pochi esagitati e prendere sul serio un movimento che è esplicitamente non violento.
Dopo le manifestazioni, il movimento prosegue sotto altre forme. Se è vero che i processi di trasformazione sociale cominciano cambiando mentalità e lasciandosi la paura alle spalle, allora gli indignati del 15-M sono un salto di qualità per i cittadini che vogliono più potere e una democrazia reale. Non si tratta di qualche migliaio di ragazzini che insegue un’utopia, ma di un forte movimento d’opinione che condivide le loro idee. È questo che dicono i sondaggi. Secondo quello realizzato da Metroscopia per El País, il 66 per cento degli spagnoli simpatizza con il 15-M, l’81 per cento pensa che gli indignati abbiano ragione e l’84 per cento che si occupino dei problemi concreti dei cittadini. Il 51 per cento ritiene che i partiti pensino solo ai loro interessi.
Il 70 per cento non si sente rappresentato dai partiti e il 90 per cento pensa che debbano cambiare. Il 78 per cento degli elettori socialisti e il 46 per cento di quelli del Partito popolare simpatizza con il movimento. Gli indignati sono apartitici, non apolitici. È un movimento che cerca di trasformare i metodi di rappresentanza e quelli decisionali. Perché nel bel mezzo di una crisi strutturale che corrode l’esistenza quotidiana, la condizione necessaria per cambiare il modello è trasformare il modo in cui è elaborato e gestito. Ma cosa propongono gli ex accampati, oggi riuniti nelle assemblee? Bisogna ascoltare per capire.
A me sembra che sia molto più importante il processo che non il risultato. A caratterizzare il movimento non sono tanto le proposte concrete quanto i modelli di dibattito, decisione e azione. L’accordo che regge un movimento così variegato è possibile perché le persone rappresentano loro stesse, perché non ci sono organizzazioni o leader. Ecco la ragione dell’importanza delle assemblee nei quartieri, nei piccoli paesi e nei luoghi di lavoro. L’idea è che le assemblee raccolgano le proposte della gente nel loro ambiente, per poi collegarsi ad altre assemblee più grandi, quelle nelle piazza di Madrid e Barcellona.
Un sistema così decentrato e plurale di deliberazione e decisione per funzionare si basa su due condizioni fondamentali. Da una parte il rispetto e la tolleranza. I dibattiti nelle assemblee sono forti, soprattutto quando qualcuno tenta di spostare il discorso su un piano ideologico o quando viene fuori un irriducibile individualismo, coerente con la premessa secondo cui nessuno deve imporsi sulla libertà degli altri. Ma come regola generale il disaccordo si manifesta nella tolleranza dell’altro ed è gestito da gruppi capaci di usare metodi di mediazione che molte imprese si sognano. E poi c’è sempre internet che funziona come una struttura di appoggio e comunicazione per informare, discutere, chiedere solidarietà e aiuto. Insomma: per non sentirsi soli.
Perché c’è anche un po’ di paura. È una sfida radicale, per quanto non violenta, all’ordine sociale, e tutti hanno chiare le possibili conseguenze: dalle bastonate della polizia fino ai problemi sul mercato del lavoro. La paura si supera solo unendosi. In rete e nelle piazze. La domanda che si fanno i manifestanti è come incidere sulle decisioni che riguardano tutti. Non vogliono diventare un partito, perché pensano che farlo equivalga a cadere nella trappola delle istituzioni. Per questo la protesta ha cercato visibilità sui mezzi d’informazione, per raggiungere i cittadini. Per ostacolare il tran tran di un sistema politico che va avanti come se niente fosse.
I manifestanti vogliono un’altra società, perché pensano che le istituzioni siano marce e che la crisi non sia una crisi, ma una truffa dei potenti. Quello che uscirà da questo movimento sarà frutto di un dibattito che coinvolgerà tutti i cittadini, e che produrrà nuovi modelli di vita e di politica. Gli indignati rivendicano il diritto di sbagliarsi. Ma si rifiutano di pagare per gli sbagli di chi comanda. Hanno tempo. Vogliono andare piano perché vanno lontano. E mentre lottano per decidere come decidere, vivono già la vita, nella gioia di sentirsi liberi.
Per questo i politici non riescono a capirli, neanche quella parte della sinistra tradizionale che guarda con favore al movimento. I partiti si fanno le domande sbagliate: quale organizzazione? Quale programma? Quale strategia? Se non ci sono risposte prevedono, con la condiscendenza di chi ha rinunciato ai propri sogni, che il movimento sparirà. Forse. Ma non le sue idee, non le sue speranze, non i semi di una nuova politica. Potrebbe essere un ultimo appello alla vita prima di precipitare nel vortice di distruzione che ci inghiottirà.
*Traduzione di Sara Bani.
Internazionale, numero 903, 24 giugno 2011*
*Manuel Castells è un sociologo spagnolo che insegna all’University of Southern California. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è *Comunicazione e potere.
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