C’è un vistoso paradosso quest’anno dietro il giorno della memoria: la data corre un pesante rischio di assuefazione e di ritualizzazione retorica proprio mentre i disvalori che si proponeva di combattere trovano nel nostro discorso pubblico uno spazio che non avevano mai avuto.
L’intenzione proclamata dalla legge del 2000 (“conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico e oscuro periodo della storia nel nostro paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere”) si sta banalizzando fino a rischiare l’inefficacia proprio nel momento in cui più se ne verifica la necessità.
Le ragioni di questa difficoltà sono molto profonde ma insieme eclatanti. Si tratta in fondo della fragilità dell’antifascismo: la mancata rielaborazione del nostro passato comune e in primo luogo delle nostre comuni responsabilità.
Nell’opinione pubblica e in larga parte del dibattito politico è frequente giudicare le leggi razziali come una frattura che ha sfigurato la vicenda fascista, una rottura rovinosa e suicida che l’ha compromessa. Si trattò invece del compimento di un percorso che aveva già previsto la discriminazione e la violenza omicida contro gli antifascisti e poi un colonialismo apertamente razzista, oltre che assassino. Tanto che quando la discriminazione contro gli ebrei produsse le leggi che oggi tutti biasimano, non ci fu praticamente reazione in una opinione pubblica già assuefatta alle pratiche della persecuzione. Tutt’altro che una cesura, dunque, bensì il culmine di una storia che in questi anni è stata continuamente manipolata, minimizzata, dimenticata. E che d’altra parte ha origini ancora più profonde e antiche.
Il giorno della memoria somiglia a un telo generoso steso a coprire una rete di silenzi e negazioni
Le pagine nere dell’antisemitismo cattolico e papale sono oggetto – nonostante l’enfasi sulle pubbliche scuse – di un’analoga rimozione. I libri di un autorevole studioso come David Kertzer possono vincere il premio Pulitzer senza che, a parte qualche eccezione, praticamente nessuno in Italia li prenda in seria considerazione.
Ogni mistificazione sul presente nasce da una menzogna sul passato. In questa situazione, il giorno della memoria somiglia a un telo generoso steso a coprire una rete di silenzi e negazioni. Anche perché pesano in questi anni, e nel 2018 in particolare, una serie più stringente e corrente di difficoltà.
La principale ha a che fare con il panico xenofobo e l’idea dello straniero come estraneo o nemico, del diverso come minaccia. Questa patologia odierna rimbalza sulla memoria dell’antisemitismo, associa il diverso storico (l’ebreo) a quello contemporaneo, aspira a prendere da tutti le distanze: non solo ogni empatia –psicologica, materiale, simbolica – scompare, ma ogni oggettività storica evapora di fronte alle pressioni del presente (per queste ragioni peraltro ci si attenderebbe dalle comunità ebraiche nel mondo una particolare sensibilità al dramma dei migranti).
C’è poi sempre – e in questi mesi la ragione è comprensibile anche per chi non la condivide – la questione di Israele e dell’occupazione, che pesa nel generare o confondere opinioni. Qui c’è da dire con chiarezza che questa sovrapposizione tra shoah, stato d’Israele e giorno della memoria è tanto ovvia quanto illegittima. L’intreccio storico che li lega è innegabile, ma non c’è ragione di compromettere la memoria delle vittime dello sterminio con la politica dello stato che pure è nato (anche) dalle loro ceneri. Dopodiché l’impegnativa intenzione della legge del 2000 (“affinché simili eventi non possano mai più accadere”) dovrebbe valere per tutti e ovunque nel mondo.
Anziché riconoscere l’unicità della shoah e il suo carattere esemplare, se ne è frantumato il valore universale
Ci sono infine – su scala più piccola e spesso miserabile – le ragioni contingenti della politica italiana, con le sue contraffazioni e strumentalizzazioni, quest’anno perfino elettorali. Del resto la premurosa istituzione, appena mutata la maggioranza politica, di un complementare e concorrenziale giorno del ricordo non ha avuto l’effetto di allargare lo spazio e il dovere della memoria, ma l’ha resa definitivamente un campo di contesa, peraltro tra eventi imparagonabili, qualunque scala si attribuisca alla realtà delle foibe. Anziché riconoscere l’unicità della shoah e insieme il suo carattere esemplare, in grado di generare attenzione e allarme verso altri genocidi, se ne è frantumato il valore universale, capace di riassumere e illuminare tutte le memorie delle sofferenze, degli odi e delle persecuzioni.
Così accerchiato il giorno della memoria deperisce, perde ogni spinta emotiva e conoscitiva, lascia il campo libero alla vergogna degli eredi degli sterminatori nelle varie, ipocrite versioni (quella che ridimensiona e quella che rivendica, quella che nega e insieme desidera, magari trasfigurando il volto dell’ebreo in qualunque esule o straniero, di qualunque altra cultura o religione).
Voci che spariscono
C’è una pratica possibile che arresti questa deriva? A partire dall’esperienza di questi anni, se ne possono indicare due: la forza del racconto e la battaglia delle idee. Sulla seconda c’è poco da dire, se non richiamare la necessità in ogni epoca e situazione di non rassegnarsi, di non cedere le armi della giustizia e della ragione. E qui c’è una ragione limpida e una giustizia da restaurare all’infinito, per riscattare il meno parzialmente possibile la vergogna (tutta europea) della shoah.
La forza del racconto è invece risorsa grande ma in via di esaurimento. Dopo decenni di silenzio proprio e di sordità altrui (e cosa nacque prima non è dato di stabilire), la parola dei sopravvissuti è diventata il suono che non lascia indifferenti le persone e immutate le opinioni. Sono le voci che hanno violato opacità e strumentalità, che hanno superato ogni distanza e spezzato ogni resistenza.
Questa energia cresce di anno in anno: chi in questi giorni vedrà, sulle numerose reti televisive che lo trasmetteranno, il documentario su Sami Modiano sperimenterà ancora una volta la potenza insopprimibile del racconto che è in primo luogo la solidità della verità (di ciò che è davvero accaduto) ma anche la forza del corpo, del viso, delle mani, degli occhi di chi ha visto e testimonia. E del resto lo splendido riconoscimento istituzionale a Liliana Segre è la sanzione pubblica di questa riconoscenza, essendo lei una sopravvissuta che ha taciuto a lungo e ha preso la parola solo quando ha capito che era definitivamente necessario.
Quelle che ascoltiamo sono le ultime voci vive, e la forza del tutto peculiare che hanno assunto deriva anche da questa dolorosa sensazione. Cosa accadrà quando anche l’ultimo testimone scomparirà? Sarà una sfida per il vanto delle nuove tecnologie, un irripetibile banco di prova: si mostreranno capaci di mantenere la memoria, cioè non solo la ragione dei fatti, la serie degli eventi e i nomi delle persone ma la natura dei sentimenti, lo scandalo delle emozioni? Ma sarà soprattutto il tempo di un nuovo pericolo (l’incontrastato dilagare di ogni negazione) e di un nuovo, difficile racconto.
Per prepararlo vale la pena di accumulare ancora la verità di chi ha vissuto, subìto e combattuto, con le angosce, i turbamenti, le commozioni che dovremo non solo sperimentare ma a nostra volta testimoniare. Per questo – la battaglia del presente, la sfida del futuro – forse serve ancora nel 2018 il giorno della memoria.
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