Le vittorie non danno diritti, le sconfitte sì. Chi, come la sinistra italiana, registra un tracollo delle dimensioni emerse domenica 4 marzo ha diritto a una discussione reale, come in questi anni di piccole vittorie e sconfitte più o meno dissimulate non è avvenuto. In questi primi giorni e ore non sta accadendo – e del resto se la sinistra avesse la volontà e la capacità di affrontare discussioni reali non starebbe nella situazione in cui il paese l’ha trovata e lasciata il 4 marzo.

Sul piano decisivo più di tanti calcoli politologici (quale cultura politica si è messa in campo?) tutto pare ridursi al reciproco rimprovero: si è perso perché la sinistra è parsa troppo di sinistra, elitaria e sorda a paure e allarmi che dilagano nel paese; si è perso perché si è inseguita la destra, smarrendo la propria identità. Messo su questo piano, il dilemma non avrebbe storia: perché mai un paese che vorrebbe più sinistra non ha premiato una sinistra radicale che stavolta era in campo, con figure autorevoli e riconosciute?

Per reggere, la tesi ha bisogno di attribuire anche a quella sinistra radicale, con tutta la sua recente e meno recente storia, una subalternità all’egemonia neoliberista. Tesi più che forzata, a guardare proposte e linguaggi, e ingenerosa verso un tentativo pure sovraccarico più di rancori che di idee. I numeri dunque avrebbero facilmente ragione di questa sommaria controversia. Ma la statistica non è tutto.

Un esito elettorale non è solo una sentenza. C’è sempre un elemento di movimento, di cambiamento, di potenzialità

La politica è anche un campo di sentimenti e di identità. Un esito elettorale non è solo una sentenza (eppure lo è, mai fare finta che non lo sia). C’è sempre un elemento di movimento, di cambiamento, di potenzialità, specie in un’epoca di trasformazioni così fluide, rapide e fatali. È importante andare oltre la sterile controversia senza senso che occupa buona parte del confronto sui social e delle discussioni private per arrivare al cuore del problema, anzi dei numerosi problemi della sinistra contemporanea. Farlo però implicherebbe uno sforzo insopportabile per i tifosi delle opposte interpretazioni.

Uno sforzo duplice: non ignorare la dimensione mondiale che ha la crisi della sinistra; entrare nel merito di misure, provvedimenti e culture politiche degli ultimi governi per capire come hanno o non hanno funzionato. E doppia dovrebbe essere anche la rinuncia: ai giudizi all’ingrosso che attribuiscono ai politici della nostra recente sinistra la responsabilità di aver spalancato le porte alla reazione (una responsabilità della quale non sono, per così dire, all’altezza nell’epoca di Trump); alle interpretazioni puramente ideologiche o banalmente pregiudiziali che volano alto ma non distinguono e non spiegano nulla. Uno sforzo di intelligenza, insomma, di serietà e (udite, udite) di materialismo.

La semplificazione è inutile
Per limitarsi ai due grandi temi che dovevano e non potevano che definire la sinistra del nuovo secolo (sicurezza sociale e diritti) come hanno funzionato idee e proposte delle sinistre nazionali e locali? E per limitarsi a due esempi italiani tra i molti possibili: perché dentro la crisi ha avuto l’esito che ha avuto una misura banalmente, rigorosamente egualitaria come un aumento salariale per tutti i lavoratori più poveri o meno ricchi (i famosi 80 euro)? Perché la rete di enormi speranze che ha accompagnato il cammino di leggi attese come le unioni civili, il fine vita, lo ius soli non è giunta fino alla loro completa realizzazione?

Le due narrazioni di cui sopra avrebbero le risposte pronte e le responsabilità in tasca: è colpa di una sinistra troppo elitaria da non essere più sinistra o invece no, è colpa di una sinistra così moderata che sinistra non lo è più. Sono risposte facili e false, ottuse nella loro complementarietà e interscambiabilità; ma soprattutto inutili.

Bisognerebbe invece capire – per esempio – la nuova composizione sociale che ha reso impotenti sul piano economico e simbolico gli 80 euro e la nuova composizione morale che oppone illimitate attese e smisurate ostilità. Bisognerebbe sporcarsi le mani (non lasciarle in tasca), fare la fatica di cercare e di capire, non accontentarsi di quello che si sapeva e delle proprie giuste ragioni di un tempo che non è questo. Bisognerebbe liberarsi dalle illusioni: conciliare diritti sociali e diritti civili non è facile, per esempio, non si deve credere (specie in Italia, con le istituzioni economiche e le strutture culturali depositate dalla nostra storia) alla favola di una sinistra immaginaria che c’è riuscita.

La sinistra egemone (comunista o neo o post tale) ha irriso i cosiddetti diritti civili fino a che (ecco una delle piccole lezioni da salvare in tutta questa storia) una minoranza illuminata (e non ritenuta propriamente di sinistra perché a sua volta sorda ai diritti sociali, come i radicali) e un’opinione pubblica flessibile se ne sono fatti carico mettendo quella cultura e quella tradizione con le spalle al muro fino a cambiarla. E non è facile, anzi è il cuore di tutte le grandi sfide e i grandi fallimenti del nostro tempo, affrontare il tema che ha davvero segnato il mutare di sentimenti, emozioni e votazioni, ossia l’immigrazione.

Qui davvero sul corpo stremato della sinistra i sostenitori delle opposte interpretazioni si sono esercitati fino allo sfinimento. E dunque qui si misurerà la capacità in primo luogo culturale di costruire analisi e azioni diverse. Un piccolo network di volenterosi ci sta provando, ereditando da Alessandro Leogrande l’idea di uno spazio entro il quale ospitare esperienze e idee che sfuggano alle rappresentazioni consuete, alle semplificazioni reciproche. È solo un esempio ed è solo un inizio. Ma offre un metodo di ascolto e di confronto che potrebbe essere utile a molti – e a molto.

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