Dal 5 marzo, e cioè dal giorno dopo le elezioni, gli occhi sono puntati sull’Italia del sud. Tutti provano a capire cosa abbia diviso il paese a metà: da una parte il nord che ha decretato il successo della Lega, dall’altra il sud che ha votato in maggioranza per il Movimento 5 stelle.
In particolare, quel sud tutto dipinto di giallo è utile per ridimensionare la novità del voto, e ricondurla a più vecchie certezze.
Il reddito di cittadinanza (nel programma dell’M5s fin dal 2013, oggetto di un già discusso disegno di legge e, nei fatti, come ha osservato Chiara Saraceno, nulla più di una generosa, imperfetta, banale assicurazione universale contro la disoccupazione) spiegherebbe la geografia del voto “lazzarone” del sud; parallelamente, il nord produttivo avrebbe votato egoisticamente per la flat tax. Su una simile lettura, per citare il caso più autorevole, basa la sua proposta di reintroduzione di gabbie salariali il presidente dell’Inps Tito Boeri.
Ma questa interpretazione, solo apparentemente economicistica, rimuove in realtà la profonda trasformazione imposta all’Italia dagli ultimi, lunghi decenni di stagnazione e poi crisi. Quando il voto è spiegato esaminando le preferenze economiche, le osservazioni paiono tuttavia risentire degli stereotipi riguardanti i vizi del sud “terrone” e le virtù del nord produttivo.
Per rendersi conto di cosa è successo, può essere dunque utile mettere insieme alcuni numeri, noti e disponibili, ma largamente rimossi dal dibattito pubblico. Focalizzandoci sul risultato dei cinquestelle nel sud, cosa può spiegare il voto di chi, secondo Tecnè, li ha votati individuando nella mancanza di lavoro e nei bassi redditi i problemi principali del paese?
Secondo l’ultimo rapporto dell’associazione per lo sviluppo dell’industria nel mezzogiorno (Svimez), ben il 36 per cento della popolazione meridionale appartiene al quinto più povero di italiani, contro l’11 per cento al centronord. Come riportava già l’edizione precedente del rapporto, l’incidenza dei cosiddetti working poor – chi cioè, pur lavorando, non ce la fa a uscire dalla soglia di povertà – è più che tripla nel mezzogiorno: sono il 24 per cento dei lavoratori meridionali, contro il 7 per cento del nord. Anche nel 2017, secondo Svimez, “il fattore determinante delle tendenze in atto è l’incremento dei lavoratori a bassa retribuzione, che ha caratterizzato l’ultimo decennio. […] Le retribuzioni reali […] aumentano rispetto al 2008 del 2,5 per cento nel centronord mentre diminuiscono del 4,5 per cento nel mezzogiorno”.
La distanza tra nord e sud emerge chiaramente dagli ultimi dati dell’indagine sui bilanci delle famiglie di Banca d’Italia: nel 2016, la differenza di reddito tra il sud e il centronord era di circa il 40 per cento, a vantaggio del centronord. Se si escludono gli anni più duri della crisi – quando i redditi sono calati maggiormente al nord e al centro – il divario è andato allargandosi. Il sud sembra subire meno la crisi, ma in questa macroregione i redditi delle famiglie sono stagnanti almeno dal 2006.
Al basso reddito si associa la mancanza di occupazione – nelle priorità degli elettori, così come nel loro vissuto. Su lavoce.info, Marco Alberto De Benedetto e Maria De Paola mostrano come, al livello di province, la percentuale di popolazione occupata possa spiegare sia il voto all’M5s sia quello alla Lega. Quest’ultima si afferma infatti dove si lavora di più, mentre i grillini crescono dove questa scende. Se la poca occupazione (anche femminile) è una piaga storica del sud, dal 1992 il divario con il resto del paese in termini di partecipazione al lavoro è quasi raddoppiato. Nel 1992, era occupato il 46 per cento della popolazione meridionale tra i 15 e i 64 anni, tredici punti percentuali in meno del nord (59 per cento). Oggi, l’occupazione al nord è salita al 66 per cento, mentre al sud si è ridotta ancora, arrivando al 43 per cento – e portando la differenza tra macroregioni a 23 punti percentuali.
Una tale segmentazione non può più essere spiegata nemmeno con la differente pervasività del lavoro nero. Sempre la Svimez mostra come al sud siano proprio gli investimenti, necessari a generare domanda di lavoro, a essere crollati del 34 per cento tra il 2008 e il 2016, undici punti in più rispetto al centronord.
A differenza di quel che potrebbe sembrare, la dinamica degli investimenti si è contratta tanto nei settori dell’industria e dei servizi, quanto in quello delle costruzioni, provocando inevitabilmente una perdita di struttura produttiva e di stimolo al sistema produttivo con effetti più profondi e di lungo periodo.
In questo contesto è possibile che lo stesso lavoro in nero sia diminuito (oltre che ovviamente essersi impoverite anche le persone che potevano contare su questa forma di lavoro) e che i dati sottostimino il crollo dell’occupazione al sud e l’aumento delle differenze con il nord. Già nel 2015 la Svimez denunciava che, tra il 2001 e il 2014, il mezzogiorno d’Italia è cresciuto meno della Grecia (rispettivamente -9,4 per cento e -1,1 per cento).
Lo stesso si osserva guardando agli enti locali e previdenziali. Nonostante i maggiori tassi di povertà e disoccupazione, nel mezzogiorno la spesa degli enti previdenziali continua a essere meno di tre quarti di quella garantita al centronord, mentre la differenza della spesa degli enti centrali e territoriali tra le due macro aree si è ulteriormente allargata, raggiungendo il 10 per cento. Non sembra un caso se un’altra antica piaga del sud, l’emigrazione, abbia assunto ormai dimensioni da vera e propria evasione, come sottolineato sempre da Svimez nei dati ripresi da Claudia Torrisi su Valigia Blu.
Simili ragionamenti potrebbero riproporsi nell’analizzare altri, crescenti divari, riflessi dalle recenti geografie del voto – quelli tra centro e periferia, così come quelli tra città e provincia.
È però quanto mai necessario, nel farlo, evitare il riduzionismo economico, e avere consapevolezza dell’interazione, non univoca, tra condizione economica, altri aspetti più propriamente sociali, e fenomeni politici.
Torna utile un articolo recente di Alessandro Cavalli, riproposto da Moneta e Credito nei giorni seguenti le elezioni, sull’approccio di un economista come Paolo Sylos Labini ai problemi del sud.
Secondo Sylos Labini, sviluppo economico e sviluppo civile possono solo progredire insieme: il primo è presupposto del secondo – “è difficile parlare di ‘civiltà’ quando gran parte della gente conduce una vita grama nella povertà” – e allo stesso tempo “trova seri ostacoli quando non può fondarsi su una forza lavoro sufficientemente sana e istruita, su una ragionevole aspettativa che i contratti verranno regolarmente onorati, su uno Stato capace di regolare pacificamente i conflitti e di promuovere l’interesse comune”.
Impossibile non pensare al senso di compiacimento con cui, a “sinistra”, si rivendica l’aver preso i voti dei pochi istruiti e colti, dopo non aver saputo garantire alla maggioranza lavoro, redditi e servizi pubblici degni.
Proprio Sylos Labini, continua Cavalli, auspicava per il sud “la formazione di una nuova imprenditorialità giovanile al fine di ‘ridurre il numero dei giovani che affollano le anticamere dei potenti, dei boss locali, per ottenere un posto nella Pubblica Amministrazione’” – fattore “terribilmente diseducativo, perché spinge verso il servilismo e, contemporaneamente, verso una sorta di disprezzo per quegli stessi che danno i favori”.
Vista la grande attenzione dedicata al tema dallo stesso Sylos Labini, è naturale domandarsi cosa ci dica il tentativo dell’Istat di definire delle nuove classi sociali per l’Italia di oggi. Anche questa classificazione, non esclusivamente basata su reddito e occupazione, finisce per riproporre quasi integralmente la spaccatura nord/sud analizzata sinora.
Tra le ragioni di interesse per le classi sociali c’era, in Sylos Labini, proprio il timore che “l’instabilità politica della piccola borghesia”, e la sua alleanza con “i gruppi dominanti della grande borghesia”, potesse spiegare l’ascesa del fascismo negli anni venti, e costituisse un pericolo per la democrazia italiana.
Da questo punto di vista, il voto del 4 ci restituisce l’immagine di un sud saldamente in contrasto con le principali rappresentazioni politiche fornite dai gruppi dominanti della seconda repubblica.
L’elemento forse più suggestivo dell’accostamento dei voti della Democrazia cristiana e dell’M5s, proposto dall’Istituto Cattaneo, è costituito dalla data – quel 1992 che potremmo indicare come inizio del declino economico italiano.
All’epoca già si potevano intravedere i sintomi della crisi produttiva, anche se la povertà e le disuguaglianze personali e regionali erano vicine ai minimi storici dopo decenni di forte riduzione. L’elettorato (non solo meridionale) poteva ancora votare per quella stabilità che, tra storture e corruzione, era in grado di rivendicare un innalzamento senza precedenti dei livelli di vita degli italiani.
Nell’Italia del 2018, nessun blocco di potere sembra poter garantire simili certezze. Prospettive di rottura un tempo tabù – come la violazione dei vincoli europei o l’uscita dall’eurozona – paiono non spaventare più la gran parte dell’elettorato.
Se per molti versi è erroneo parlare di rivolta populista, non è del tutto fuori luogo vedere nel voto una sorta di oxi italiano, un equivalente del no con cui i greci hanno provato a respingere le imposizioni dell’Europa al loro governo nel 2015.
Magari con meno consapevolezza dei temi economici, ma con grande rilevanza in termini psicologici, il 4 marzo la maggior parte degli italiani ha rotto il tabù della responsabilità e della fedeltà all’Europa. Che siano state più pronte a farlo aree tradizionalmente conservatrici, più che liberare lo sfottò antimeridionale, dovrebbe suonare come campanello d’allarme per chi crede ancora sinceramente in quelle politiche.
In prospettiva europea, un utile articolo degli storici economici Joan Rosés e Nikolaus Wolf sottolinea come quello dei divari regionali sia un fenomeno comune a tutto il continente. Certo, il caso italiano è ancora una volta particolare: nel nostro paese non assistiamo al declino di aree rese prospere da diversi paradigmi tecnologici (il Galles minerario), ma all’incancrenirsi di divari che persistono ormai da oltre un secolo e mezzo. In entrambi i casi, dentro e fuori l’area dell’euro, le forze della globalizzazione sembrano accrescere non solo le disuguaglianze tra ricchi e poveri, ma anche tra provincia e centro politico. Come testimoniato dai casi britannico e catalano, questa miscela ha un potenziale esplosivo per la tenuta non solo dell’Unione, ma degli stessi stati che la compongono.
Può sembrare paradossale il fatto che a farsi interprete del malcontento verso l’euro sia una forza (un tempo?) secessionista, sorta per rappresentare gli interessi di quella che è in fondo la “Germania” dell’unificazione italiana. Ma gli analisti del voto italiano dovrebbero prendere atto di quanto siano pervasive le forze economiche centrifughe e disgregative in atto; e di quanto dietro la “stabilità dello zerovirgola” si annidino i semi di quel voto così “sorprendente”.
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