Mi ha telefonato il datore di lavoro del papà di un compagno di classe di Irma, seconda elementare. Sono rappresentante di classe e mi ha telefonato per chiedermi se riesco a spedire i compiti in un formato più stampabile perché lui non riesce. Perché è lui, questo imprenditore di una piccola azienda emiliana, che stampa i compiti e li dà al papà che li dà al figlio.

Questa frase, tratta da un post su Facebook di Eloisa di Rocco, tocca il centro esatto della questione della scuola italiana durante il blocco delle lezioni per il coronavirus. E il centro della questione, la storia di un bambino delle elementari che non ha una stampante e non ha un computer o un cellulare sul quale ricevere i compiti scolastici, è un puntino piccolissimo del quale sarà semplice dimenticarsi: la scuola è insostituibile e il digital divide è una forma di diseguaglianza che riguarda, prima di tutto, i più deboli.

Le ragioni per cui il divario digitale dovrebbe essere un tema centrale della politica nazionale sono due. Perché colpisce i più deboli e perché riguarda ormai un numero molto rilevante di nostre attività. Non è solo la scuola a esserne colpita: l’informazione, l’acquisto di beni e servizi, i rapporti con l’amministrazione, l’intrattenimento e il lavoro stesso sono silenziosamente scivolati nel giro di pochi anni da un contesto analogico a uno digitale. Una trasformazione di abitudini e competenze da cui un numero molto alto di italiani è rimasto almeno in parte escluso.

Da alcune settimane la didattica scolastica si è trasformata, improvvisamente e senza che nessuno lo avesse deciso prima, in una questione interamente digitale. Lo è diventata in maniera forzosa: la scuola oggi, per colpa dell’emergenza coronavirus, ha chiuso i suoi cancelli fisici e viaggia sulle dorsali di internet, obbliga gli insegnanti a improvvisi aggiornamenti tecnologici, prova a trasformare alcuni esperimenti didattici, osservati con sospetto dai più, nella prassi quotidiana di tutti.

Quando nel 2014 Matteo Renzi, appena eletto presidente del consiglio e al culmine del proprio prestigio politico, annunciò come prima iniziativa del suo esecutivo un imponente piano per l’edilizia scolastica, mi domandai se dentro un simile progetto non avrebbe avuto senso anche dotare le scuole italiane di una connessione in fibra ottica. Non solo i muri sono “infrastruttura”, pensavo. Con il senno di poi, mentre osservo di nascosto mia figlia alle prese con le sue lezioni di liceale dal computer della sua stanza, forse avrebbe avuto senso; forse questi sei anni di intervallo prima del disastro di questi giorni avrebbero avvicinato molti docenti e moltissimi studenti alle forme di didattica alle quali sono costretti oggi.

L’infrastruttura
Il divario digitale nel quale siamo immersi si compone di due parti, complementari e inestricabili: l’infrastruttura e le competenze. Le trattiamo separatamente, riferendoci solo alla scuola, tenendo presente che si tratta di argomenti che si influenzano fortemente uno con l’altro e che riguardano la scuola esattamente come tutto il resto.

Gli ultimi dati disponibili sulle scuole italiane cablate sono contenuti in un accurato studio di Agcom del 2019 e dicono in sintesi una cosa sola: le scuole italiane sono digitalmente divise nelle loro infrastrutture di rete esattamente come lo sono gli italiani nelle loro case. Non hanno ricevuto alcun trattamento preferenziale, semmai il contrario.

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Poco più di una scuola ogni dieci possiede un collegamento ultrabroadband, vale a dire con velocità di connessione in download superiore a 100 mbps. La stragrande maggioranza dei plessi scolastici è connessa a internet attraverso vecchie linee adsl, la maggioranza delle quali con banda inferiore ai 10 mbps, che consentono connessioni occasionali e di bassa qualità solo per alcuni laboratori o classi contemporaneamente. Se questo non bastasse le scuole pagano di tasca propria i contratti di connessione a internet, con canoni annuali che vanno da tremila a novemila euro, per cui in molti istituti, specie in quelli con minor disponibilità finanziarie, si sceglierà di risparmiare adottando linee meno performanti e quindi meno costose. Il risultato è che mancando l’infrastruttura manca anche tutto il resto. Il tema, da sempre, ha interessato pochissimo la politica.

A parte eccezioni luminose come per esempio l’Emilia-Romagna che attraverso il progetto chiamato SchoolNet ha deciso di fornire gratuitamente una connessione in fibra ottica da 1 gbps simmetrico a tutte le scuole della regione, l’infrastruttura digitale per la didattica è un tema il cui livello di attenzione politica è rimasto invariato almeno dai tempi del primo governo Renzi e anche da prima.

Quando l’ex sindaco di Firenze provò a mettere intorno a un tavolo i principali operatori delle telecomunicazioni per cablare in fibra il paese con i fondi europei che nel frattempo erano stati stanziati, gli invitati si esibirono subito in un’indecorosa rissa tutti contro tutti. Dell’incapacità politica di allora di riunire soggetti eterogenei in nome dell’interesse nazionale ne paghiamo ancora oggi il prezzo. Nacque allora Open Fiber, una strana società composta da Enel (società il cui principale azionista è lo stato) e Cassa depositi e prestiti (una società di proprietà del ministero dell’economia che gestisce prevalentemente il risparmio postale degli italiani), improvvisata in fretta e furia e la cui attività principale in questi anni è stata contrapporsi a Tim per portare la fibra nelle grandi città, mentre le zone periferiche del paese, quelle definite “a fallimento di mercato”, quelle per coprire le quali Open Fiber era nata, subivano i soliti enormi ritardi. Tim ha risposto con la medesima moneta e tutto, come avviene di solito in Italia, è finito fra tribunali e carte da bollo.

Tento una sintesi, anche per non divagare troppo: l’infrastruttura di rete, per le scuole molto prima che per le aziende e le case di tutti gli italiani, è un tema politico rilevante del quale però, almeno fino alla crisi improvvisa per il coronavirus, non si interessava nessuno. E le volte in cui si è scelto di occuparsene si sono fatti discreti disastri.

Le competenze digitali
Gli ottimisti pensano – ne ho incontrati molti in questi anni e me lo hanno ripetuto spesso – che quando l’infrastruttura sarà performante e capillarmente diffusa i cittadini, i clienti, ma anche gli studenti, gli insegnanti e i lavoratori in genere inizieranno magicamente a utilizzarla. È una pia illusione alla quale sarà molto semplice credere per il semplice fatto che mentre l’infrastruttura di rete è palpabile, sono cavi e router, buchi nell’asfalto, contratti e subappalti, sudore e caschi di plastica gialla in testa agli operai, la cultura digitale non somiglia a nulla di tutto questo. Investire nell’infrastruttura è un linguaggio che la politica magari non pratica ma capisce al volo, perché riguarda materie che essa maneggia quotidianamente. Un’infrastruttura, avendo i soldi per farla, la si potrà costruire, avrà tempi certi (più o meno), fondi europei ai quali attingere, risorse da distribuire fisicamente sul territorio.

Alla politica l’infrastruttura digitale interessa perché è una forma usuale di gestione del potere e delle proprie influenze, perché innesca un ritorno politico in tempi brevi, crea una rete di interessi comuni con altri soggetti. Ridurre il divario culturale degli italiani invece non fornisce nessuno di questi appigli. Riguarda le teste dei cittadini, richiede un lavoro minuzioso e sotterraneo, dai risultati incerti e lontani nel tempo. Sarà insomma un investimento politicamente impalpabile i cui risultati, se mai ci saranno, giungeranno fra molti anni.

Non è un caso allora che sulle competenze digitali dei cittadini non ci sia la ola dei politici disposti a supportarle con qualcosa di più di un pomposo discorso ogni tanto o di un documento pieno di buone intenzioni da votare all’unanimità in parlamento. Eppure, nonostante questa grande diffidenza, il tema del digital divide culturale e della sua importanza un po’ inizia a emergere ugualmente. Il ministero dell’innovazione ha recentemente prodotto un grande progetto per provare a ridurne gli effetti che ha chiamato “Repubblica digitale”, una specie di chiamata alle armi rivolta specialmente alle aziende piena di ottime intenzioni ma senza un solo euro di soldi investiti.

Le competenze digitali degli insegnanti italiani sono difficili da misurare e altrettanto lo sono quelle dei loro studenti. Agcom ci aiuta in uno dei suoi grafici, anche se temo che perfino aggiornare quotidianamente il registro elettronico vada considerato “didattica digitale”. Anche ignorando questa possibilità si potrà dire che oltre la metà degli insegnanti italiani utilizzavano poco o nulla le tecnologie digitali.

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Qualche anno fa, alla presentazione del Piano per la scuola digitale, mi permisi di suggerire che forse una soluzione per ridurre il divario digitale degli insegnanti poteva essere quella di incentivare economicamente le buone pratiche di quanti utilizzavano il digitale a scuola. Mi risposero che non era possibile, che al massimo si potevano prevedere corsi di formazione per tutti. Del resto soldi non ce n’erano nemmeno allora, la classe docente italiana poi è la più anziana d’Europa e premiare il merito da noi non è che sia mai andato troppo di moda. Se lo si fosse fatto, quando il coronavirus ha chiuso di schianto le porte fisiche dei licei e delle scuole elementari, forse avremmo avuto meno difficoltà.

Gli studenti sono l’altra metà del problema del divario digitale culturale a scuola. Benché le statistiche indichino con chiarezza che fra adolescenti e ragazzi le percentuali di adozioni delle tecnologie connesse alla rete viaggiano ben oltre il 90 per cento, ha ricevuto molta attenzione in questi ultimi anni la semplificazione dei cosiddetti “nativi digitali”. Una sorta di principio termodinamico secondo il quale la vicinanza di nostro figlio allo schermo di uno smartphone o di un tablet ne accresceva istantaneamente le competenze digitali. Sarebbe bello ma purtroppo non è mai stato così.

La digital literacy, parola inglese di difficile traduzione in italiano, è un processo culturale, non una pratica manuale. È la comprensione di una grammatica, non l’abilità mnemonica nell’utilizzo di uno strumento. Ed è qualcosa che va imparato e quindi, possibilmente, insegnato. Così per molti anni nella scuola interessata dall’inevitabile trasformazione digitale (Wikipedia, il copia incolla, le bufale, le fonti alternative) si sono fronteggiate due categorie di soggetti entrambi in balìa del divario digitale: molti insegnanti da una parte, moltissimi studenti dall’altra, in una sorta di calco esatto della società italiana. Entrambe queste categorie stanno facendo in questi giorni del loro meglio per galleggiare in questo nuovo mare impetuoso e inedito della didattica solo online.

Infrastruttura e competenze digitali
Sono una cosa sola, dicevamo. La prima serve a poco se non c’è la seconda e le competenze digitali non possono crescere in maniera naturale senza infrastruttura. Aggiungiamo un’ulteriore complicazione che chiama di nuovo in causa la politica. Le infrastrutture non sono tutte uguali e, a differenza di quello che sosteneva Massimo D’Alema ai tempi dei “capitani coraggiosi” che affondarono l’ex monopolista delle telecomunicazioni con due rapidi colpi di boma, la trasformazione digitale deve essere governata e non può essere affidata interamente al mercato. Si occupa delle scelte culturali di tutti i cittadini e non del benessere delle società quotate: capiterà sovente che le due esigenze non coincidano.

Il mercato in questi anni ha stabilito che l’accesso a internet doveva avvenire attraverso le reti mobili, che gli smartphone erano apparecchi raffinatissimi attraverso i quali si poteva fare tutto, che la connettività era meglio “a consumo” e non con tariffe flat, e che il cosiddetto mobile first, una vera e propria nuova filosofia, con le sue app, i suoi orticelli recintati, i sistemi operativi ipercontrollati e depotenziati, doveva essere la religione di tutti. Gli italiani (non solo loro) hanno gentilmente acconsentito: hanno smesso di comprare pc e laptop, hanno disdetto a milioni le (costose) linee fisse nelle loro abitazioni, hanno aderito agli inviti di un amministratore delegato di Tim che qualche anno fa spiegava che un accesso internet a 30 mbps era più che sufficiente per qualsiasi esigenza di qualsiasi famiglia normale.

Ma se il mercato è sacro la politica dovrebbe esserlo almeno altrettanto. Eppure nessuna analisi è stata fatta su questo, nessuno ha pensato di incentivare e supportare tecnologie e servizi che aumentassero le possibilità e l’intelligenza degli italiani rispetto ad altre che la diminuivano. Il mobile first è diventata la religione di tutti e oggi ne osserviamo gli effetti con inattesa chiarezza: come la facciamo – amici – la didattica digitale se a casa non abbiamo più né pc né linea fissa? Dallo schermo da 5 pollici del cellulare, ovviamente, e consumando i giga del proprio piano dati per “fare lezione”.

La politica delle reti è esattamente questo. Seguire le bizzarrie del mondo che cambia cercando di non esserne travolti. O provando a uscirne il meno malconci possibile. È una forma di governo raffinata e necessaria alla quale non sembriamo ancora pronti. Eppure ogni scelta politica fatta dentro una simile sfera decisionale influirà potentemente sulle vite della maggioranza dei cittadini, ne determinerà attitudini e conoscenze, cultura e prassi sociali.

La politica delle reti, di cui da almeno da un decennio abbiamo un disperato bisogno, è occuparsi di un bambino delle elementari il cui padre, durante la più grande crisi che l’Italia sta subendo dal dopoguerra, va da un altro padre che proverà a stampargli i compiti che la scuola elementare ha appena mandato, sperando che il risultato sia leggibile. Affinché tutto, in qualche maniera, possa continuare.

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