Una vittoria più netta delle aspettative per il Partito democratico (Pd) in Toscana e in Puglia, una partecipazione più alta e un risultato più chiaro nel referendum costituzionale per i cinquestelle: le due forze maggiori del governo Conte hanno di che essere soddisfatte.
Infatti sono state smentite le velleità di Matteo Salvini e Giorgia Meloni di dare una spallata forse decisiva alla coalizione giallorossa grazie a un “5 a 1”, alla conquista della Toscana e della Puglia, grazie anche – questo il sogno segreto – a un no nel referendum da parte di un elettorato disponibile a trasformare il voto in un plebiscito contro il governo. Tutti quelli che nella coalizione volevano sbarazzarsi di Giuseppe Conte, tutti quelli che nel Pd sognavano di defenestrare Nicola Zingaretti dovranno frenare le aspettative. Le leadership di Conte e di Zingaretti escono stabilizzate da questo voto.
Ma sembrano fuori luogo i toni troppo netti, quelli di chi celebra il risultato come una vittoria del Pd, come una sconfitta della Lega salviniana e della destra tutta. I dati dicono altro. La destra può vantare, con Luca Zaia nel Veneto, uno strepitoso 77 per cento, mentre Giovanni Toti ha difeso la Liguria, raggiungendo il 56 per cento e quindi crescendo rispetto alle elezioni del 2015 di ben 22 punti percentuali. Neanche il fatto che in quella regione Pd e M5s siano riusciti a formare un’alleanza ha potuto riaprire la corsa.
E poi la destra si può rallegrare di aver conquistato agevolmente le Marche, regione governata dal centrosinistra per ben 25 anni. Ormai il Pd e i suoi alleati governano solo in cinque regioni, mentre le altre 15 sono in mano alla Lega, a Fratelli d’Italia (FdI) e a Forza Italia, che ancora nel 2015 dovevano accontentarsi di quattro regioni.
I cinquestelle devono fare i conti con il fatto che c’è ben poco spazio per una “terza forza” che si dichiara “né di destra né di sinistra”
Quindi possiamo affermare che le forze di governo in questa tornata elettorale hanno evitato un’altra Caporetto, ma che sono ancora lontane da un’eventuale controffensiva. Sta a loro vedere come sapranno gestire il risultato. Senz’altro all’interno dello schieramento governativo esce rafforzato il Pd, e all’interno del Pd si è consolidata la leadership di Nicola Zingaretti. Lui, con i suoi toni bassi, con il perenne tentativo di smorzare i conflitti sia all’interno del partito sia nella coalizione, si è visto accusare di essere poco carismatico, deboluccio, insomma un segretario da cambiare al più presto. Invece sotto la sua guida il partito ha saputo mobilitare il suo elettorato: in Toscana l’affluenza è cresciuta dal 48 per cento del 2015 al 63 per cento.
Meno brillante è il risultato del Movimento 5 stelle. Ha voluto correre da solo in cinque regioni su sette, ma deve fare i conti con il fatto che c’è ben poco spazio per una “terza forza” che si dichiara “né di destra né di sinistra”: in Puglia per esempio è crollato dal 45 per cento delle elezioni politiche del 2018 a un magrissimo 11 per cento. Ha due alternative: andare da solo e condannarsi a un’eterna opposizione oppure optare per una stabile alleanza con il Pd, sottolineando i suoi tratti progressisti.
Ed è devastante il risultato di Matteo Renzi e della sua Italia viva, che esce clinicamente morta dal voto regionale. Voleva dimostrare, magari anche provocando la sconfitta di Michele Emiliano in Puglia con il suo candidato di disturbo, di essere indispensabile. Invece Italia viva si è mostrata, con risultati tra l’1 e il 3 per cento (con l’unica eccezione della Toscana, dove è arrivata al 4,5 per cento), del tutto irrilevante.
Più che cambiare i rapporti tra il campo governativo e l’alleanza di destra – rapporti rimasti sostanzialmente uguali e quindi favorevoli alla destra – l’esito del voto del 20 e 21 settembre ha portato in dote alcuni chiarimenti soprattutto per la coalizione giallorossa. Ha rafforzato gli argomenti di chi chiede maggiore coesione e unità all’interno di uno schema che dovrà essere bipolare anche a livello nazionale, se non si vuole garantire la vittoria sicura di Salvini e Meloni.
Ha ridimensionato le velleità macroniane di Renzi (e di Carlo Calenda), ma anche quelle di chi nel Pd voleva un atteggiamento più conflittuale verso i cinquestelle. Sta ora a Conte, a Zingaretti, a Di Maio ripartire, con un’azione di governo che affronti, in una prospettiva progressista e antipopulista, i nodi del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), dei decreti sicurezza e soprattutto dell’uso del fondo europeo per la ripresa.
Leggi anche:
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it