Come ormai probabilmente saprete, stare a contatto con la natura è un toccasana per la nostra salute mentale. Ci fa proprio, proprio bene. Qualcuno critica Donald Trump perché passa tante ore sui campi da golf, ma si sbaglia: immaginate i danni che potrebbe fare se la sua rabbia e la sua repressa mancanza di autostima non fossero compensati dai benefici effetti di tutto quel verde!

Quindi in sé non c’è nulla di sorprendente nel fatto che un nuovo studio, condotto da Virem Swami dell’Anglia Ruskin university di Cambridge, sia giunto alla conclusione che immergersi nella natura migliora l’immagine di sé che hanno le persone, perché in fondo migliora un po’ tutto.

La domanda che rimane in sospeso è perché. Una delle risposte più affascinanti – data per la prima volta una trentina di anni fa dagli accademici Rachel e Stephen Kaplan – coincide forse con il concetto psicologico dal nome più piacevole. In un mondo che richiede incessantemente e aggressivamente la nostra attenzione, sostengono i Kaplan, la natura fa qualcosa di diverso: esercita un “fascino morbido” (soft fascination).

Chiunque ami passeggiare sa che parte del piacere consiste nel lasciar vagare la mente mentre si vaga

Le caratteristiche fondamentali di questo fascino morbido sono due. La prima è che non implica nessuno sforzo: non è necessario “cercare di concentrarsi” sul vento tra gli alberi o su una collina ricoperta di erica. In secondo luogo, è parziale: assorbe un po’ di attenzione, ma lascia liberi di riflettere, conversare o vagare con la mente.

Il risultato è quello che i Kaplan definivano la “quiete cognitiva”, in cui il muscolo dell’attenzione forzata – quello che usiamo per concentrarci sul lavoro – si può riposare, ma senza la noia che proveremmo se non avessimo nulla a cui pensare. Questo ci aiuta a capire perché per trarre beneficio dalla natura non è necessario arrivare fino al Grand canyon o alla barriera corallina. Anzi, quelli sono posti che catturano tutta la nostra attenzione, mentre il parco del quartiere in cui viviamo ne richiede solo quel tanto che basta per permettere al resto della mente di rilassarsi.

Se pensiamo all’attenzione in questi termini, ci appare chiaro con quanta irresponsabilità di solito trattiamo quella di cui disponiamo. “Per concentrarsi su un compito, bisogna evitare qualsiasi distrazione”, come scrive l’esperto di progettazione e tecnologia Richard Coyne – “e quando l’affaticamento ci impedisce di farlo, probabilmente finiamo per agire d’impulso, sottrarci ai compiti troppo difficili o diventare irritabili”.

Molto spesso reagiamo all’affaticamento cercando di concentrarci su qualcosa di diverso come le email in arrivo, i social network, la televisione, tutte cose che “sono più coinvolgenti ma meno impegnative”. C’è poco da meravigliarsi se non funziona: è come riposarsi dal sollevamento pesi sollevando pesi diversi. La natura, invece, ci permette di cambiare modalità. Per citare Frederick Law Olmsted, che progettò il Central park di Manhattan, “tiene impegnata la mente senza affaticarla, ma comunque la esercita, la tranquillizza e la stimola”.

La tesi del fascino morbido è ampiamente dimostrata. Ma per me, è l’esperienza personale a confermarla. A sentire alcuni esperti di consapevolezza, si potrebbe pensare che il modo migliore per entrare in contatto con la natura sia immergercisi completamente. Ma chiunque ami passeggiare sa che parte del piacere consiste nel pensare ad altre cose mentre si cammina, o chiacchierare con qualcuno in modo rilassato, insomma lasciar vagare la mente mentre si vaga. Innumerevoli pensatori – Darwin, Thoreau, Wordsworth – amavano passeggiare ogni giorno nella natura. Ma quando lo facevano non smettevano certo di pensare.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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