1. Marcus Mumford and Oscar Isaac, Fare thee well (Dink’s song)
Fa molto gola Inside Llewyn Davis, il prossimo film dei fratelli Coen, che ripercorre le tracce della scena folk animata una cinquantina d’anni fa da cantanti finto-country protohippie del Greenwich village newyorchese. Nella colonna sonora (che esce il 12 novembre) tanti echi di Bob Dylan e Woody Guthrie e pure di Simon & Garfunkel, attraverso le voci del protagonista (che finora era uno da particine) e del leader di Mumford & Sons, intrecciate nel blues speranzoso di ogni commiato che contiene il benvenuto.
2. Paul Simon, Spirit voices
Bentornato anche a quest’omino ebreo newyorchese reduce da mezzo secolo e passa di grande musica. La novità è che le venti canzoni della nuova antologia Over the bridge of time riuniscono, per la prima volta, le incisioni originali con Art Garfunkel e quelle da solista. In cui giganteggia Graceland (1986) registrato con musicisti e voci africane; ma era ottimo anche il successivo viaggio iniziatico brasiliano The rhythm of the saints (1990), condensato in questa ballata con la salvifica voce di Milton Nascimento nel ruolo di guaritore dalle ansie.
3. Lou Reed, What’s good
Life’s like sanskrit read to a pony: la scarna sardonica filologia esistenziale da uno zio che le aveva viste tutte. Che canzone. Tutto l’album da cui era tratta (Magic and loss, pubblicato nel 1992, con la testa piena di pensieri luttuosi) era già il canto del cigno di Lou Reed, il capolavoro tardivo di una rockstar che aveva dato tanto (e per quelli venuti su negli anni ottanta, Walk on the wild side e Perfect day erano già tradizione). E comunque: life’s like forever becoming / but life’s forever dealing in hurt. La vita è un costante divenire, ma quante se ne prendono.
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