Circa vent’anni fa il giornalista americano Fareed Zakaria scriveva sulla rivista Foreign Affairs, e poi in un libro, dell’affermazione dell‘“illiberalismo”, cioè del contrario del liberalismo politico: non più una democrazia ma non ancora una dittatura. Zakaria faceva riferimento ai regimi sempre più autoritari nonostante un’apparenza democratica, fatta di elezioni vinte in anticipo, di una stampa imbavagliata e di una magistratura sotto stretto controllo del governo.
La settimana scorsa Zakaria ha pubblicato un articolo sul Washington Post nel quale si dice preoccupato “di constatare che anche negli Stati Uniti potremmo assistere alla vittoria della democrazia illiberale, un fenomeno che dovrebbe preoccupare tutti, repubblicani e democratici, sostenitori e critici di Donald Trump”.
Il giornalista, che conduce anche un quotato talk show sulla Cnn, sostiene che “negli Stati Uniti di oggi la cultura della democrazia liberale è sempre meno popolare”. Con questo intende prima di tutto i “comportamenti democratici”, più che le istituzioni create dai “padri fondatori” e che prevedono dei checks and balances, dei contropoteri per evitare gli effetti perversi del potere della maggioranza.
Per Zakaria il 2016 ha dimostrato una scarsa capacità di resistenza all’affermazione del “populismo” e della “demagogia”, con il crollo dei partiti politici, la debolezza del congresso, l’inerzia dei gruppi professionali, e la “perdita di rilevanza” dei mezzi di informazione. L’autore critica inoltre la scomparsa delle nozioni di bene comune, di senso civico e di democrazia liberale.
Nel 2017 si vedrà come il mondo ex industriale in crisi di identità saprà resistere all’ondata illiberale
I detrattori degli Stati Uniti considerano che il sistema americano abbia dimenticato da tempo gli ideali democratici in favore dell’influenza delle lobby, del denaro e dell’ideologia di una “nazione indispensabile”, che ha trasformato il paese nel gendarme del mondo. L’intervento in Iraq, deciso nel 2003 dall’amministrazione Bush, ne è probabilmente l’esempio più significativo.
Ma la società statunitense si è anche mostrata capace di grandi prove d’orgoglio, come l’elezione nel 2008 di Barack Obama, il suo primo presidente nero, un evento che rimarrà nella storia indipendentemente dalle debolezze e dall’ambiguità del suo bilancio dopo otto anni alla Casa Bianca.
La vittoria di Trump dello scorso novembre, dopo una campagna elettorale piena di colpi bassi e caratterizzata dalla disinformazione e soprattutto dall’accusa di ingerenza russa lanciata da Obama sulla base di informazioni dettagliate dei servizi segreti, danno un carattere strano alla democrazia americana a meno di tre settimane dal passaggio dei poteri. Tanto più che il neopresidente ha un comportamento poco ortodosso, come se continuasse a essere in campagna elettorale.
Il rischio dell’illiberalismo, o di una democrazia a bassa intensità, messo in evidenza da Zakaria nel saggio del 1997, ha ovviamente una grande importanza a livello mondiale. Finora questa caratteristica si applicava a regimi con precedenti democratici inesistenti, deboli o fragili, come la Russia di Putin e la maggior parte delle repubbliche ex sovietiche o più di recente la Turchia di Erdoğan, l’Ungheria di Orbán e le Filippine di Duterte.
Dall’Austria alla Francia
Uno dei test del 2017 sarà quello di vedere come il mondo ex industriale in crisi di identità, in Europa e negli Stati Uniti, saprà resistere a questa prevedibile ondata “illiberale” e con quali mezzi.
L’Austria, in occasione delle elezioni presidenziali del 4 dicembre 2016, ha contraddetto questa tendenza che presentava come inevitabile la vittoria dell’estrema destra. Il successo dell’ecologista Alexander Van der Bellen è il frutto di una prova d’orgoglio della società austriaca, anche se il partito xenofobo dell’Fpö prepara la sua rivincita alle elezioni politiche del 2017, dopo aver firmato a fine dicembre un accordo di cooperazione con Russia unita, il partito di Vladimir Putin.
Ben presto dovremo analizzare il risultato delle elezioni politiche del 15 marzo 2017 nei Paesi Bassi, che potrebbero vedere Geert Wilders, il populista e xenofobo alleato di Marine Le Pen, arrivare primo senza però avere la certezza di poter governare. Nell’aprile del 2016 gli elettori olandesi avevano detto di no a un accordo di associazione tra l’Unione europea e l’Ucraina, sottolineando la loro diffidenza verso il “sistema”, incarnato in questo caso dalla politica europea. E ora Wilders vorrebbe organizzare un referendum – una “Nexit”, sulla scia della Brexit – per far uscire i Paesi Bassi dall’Unione europea.
Poi sarà il momento delle elezioni presidenziali francesi di aprile e maggio, che saranno seguite con attenzione in tutto il mondo a causa del peso politico della Francia nella costruzione europea. Il paese è la seconda economia della zona euro e, con l’uscita del Regno Unito, diventerà l’unica vera potenza militare e l’unico membro dell’Unione ad avere un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Ma l’attenzione degli osservatori è dovuta anche al peso storico dell’estrema destra, ai recenti risultati ottenuti dal Front national (Fn) e alla poca fiducia dei cittadini nei confronti della classe politica, dei partiti, dei mezzi d’informazione, dei sindacati e delle istituzioni (al di fuori dell’esercito).
La cosa che stupisce di più nel panorama politico francese in questi primi giorni del 2017 è che i due favoriti nei sondaggi, Marine Le Pen e François Fillon, mostrano una grande vicinanza con Vladimir Putin. La leader dell’Fn va a cercare in Russia i finanziamenti che le banche francesi le rifiutano, mentre il candidato del partito della destra tradizionale, Les Républicains, non nasconde la sua ammirazione per il presidente russo, a tal punto da non avere una posizione chiara sulla Siria. Tra i collaboratori dei due candidati ci sono dei veri e propri lobbisti che lavorano al servizio delle ambizioni del Cremlino e dei suoi interessi economici.
La questione russa domina il rapporto ambiguo con l‘“illiberalismo”. Il fascino che esercita questo presidente, che è riuscito a rimettere la Russia al centro del gioco diplomatico internazionale nonostante l’emarginazione di cui è stata oggetto da parte dei paesi della Nato, ha generato una vera e propria infatuazione in ambienti politici che avremmo creduto più prudenti, e che li ha fatti passare da un avveduto non allineamento a una compiacenza incredibile rispetto all’autoritarismo del capo di stato russo.
Il 2017 sarà l’anno della vittoria dell’illiberalismo? Senza dubbio la richiesta di autorità, di sovranità, di una leadership forte, sono valori alla moda nel mercato politico occidentale. Ma per indebolire questa richiesta, o per sbarrarle la strada in caso di necessità, bisogna avere una “offerta” politica alternativa, capace di riunire in modo credibile un elettorato abbandonato a se stesso. Nelle nostre logore democrazie non possiamo più limitarci a lottare contro un qualche potenziale despota.
Così, invece di preoccuparci dell’illiberalismo, faremmo meglio a preoccuparci della debolezza dei sostenitori della democrazia cosiddetta liberale (da non confondere con il liberismo economico, che è ben altra cosa) e della loro capacità di adattarsi a un mondo nel quale le loro vecchie strategie non funzionano più.
(Traduzione di Andrea De Ritis)
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it