Per il Cile era un motivo di grande orgoglio. Il paese si preparava a ospitare prima della fine dell’anno, uno dopo l’altro, il vertice Asia-Pacifico con cui Donald Trump e Xi Jinping speravano di sancire la pace commerciale e subito dopo la Cop25, grande conferenza sul clima. L’annullamento delle due riunioni internazionali, annunciato il 30 ottobre, fa capire quale sia la portata della crisi cilena cominciata da due settimane.

Di tutte le rivolte in giro per il pianeta, quella cilena ha un peso particolare, perché coinvolge un paese che non vive un grande conflitto e che, in più di un senso, si considerava un modello. Il Cile non ama essere paragonato ai vicini sudamericani in situazioni critiche, come l’Argentina e il Perù. Al contrario, preferisce presentarsi come il primo paese sudamericano ammesso nell’Ocse, il club dei paesi ricchi.

Finora tutto sembrava andare per il verso giusto, ma la realtà era una pentola a pressione pronta a esplodere. È bastato un pretesto, l’aumento del prezzo dei trasporti (poi annullato), per provocare un’ondata di violenza insolita dopo la fine della dittatura di Pinochet, ormai trent’anni fa.

Un paese disuguale
Da decenni si sa che il Cile segue un modello economico che genera profonde disuguaglianze. All’epoca della dittatura i “Chicago boy”, come era soprannominato un gruppo di economisti cileni formati negli Stati Uniti, avevano previsto una terapia d’urto: privatizzazione e riduzione dei servizi sociali. Da quel contesto è nata l’intesa tra il potere autoritario e l’ultraliberismo.

Da allora la stessa pozione magica è stata riproposta in forme diverse, trasformando il Cile in uno dei paesi più disuguali del mondo, una realtà nascosta da risultati positivi come l’uscita dalla povertà di milioni di cileni, entrati a far parte della classe media.

L’annullamento delle conferenze internazionali dimostra che la crisi sarà duratura

Ma questo patto sociale è morto il 18 ottobre con la rivolta contro il caro vita e soprattutto con la ventina di morti uccisi dalle forze dell’ordine e al ritorno dell’esercito nelle strade di Santiago.

Tensioni globali
L’annullamento delle conferenze internazionali dimostra che la crisi sarà duratura. In un primo momento il presidente Sebastián Piñera ha clamorosamente sbagliato la diagnosi. Inviando l’esercito ad affrontare una protesta sociale pacifica, ha trasformato la contestazione in una crisi palese.

Poi si è ripreso promettendo un “dialogo nazionale”, effettuando un rimpasto di governo e annunciando misure sociali. Ma come sempre accade, la decisione è arrivata troppo tardi, e ormai non può più spegnere il fuoco. Il 29 ottobre, nelle strade delle città cilene, ha sfilato un milione di persone. Gli scontri violenti sono all’ordine del giorno.

Possiamo credere che Piñera, miliardario e conservatore, sia capace di ricreare un patto sociale accettabile dopo aver fatto scorrere il sangue? È questa la domanda decisiva in un paese tornato a essere un “laboratorio sociale”. Per riuscire nell’intento il presidente dovrebbe passare da un sistema che genera disuguaglianza a uno sviluppo inclusivo. Questa tensione, violentissima in Cile, è lo specchio di un conflitto in corso su scala globale.

(Traduzione di Andrea Sparascino)

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