I tredici morti francesi in un incidente che ha coinvolto un elicottero durante un’operazione contro i jihadisti in Mali costituiscono il bilancio più grave per l’esercito francese dall’imboscata di Uzbin, in Afghanistan, che nel 2008 era costata le vita a dieci persone.
Il parallelo con l’Afghanistan si ripresenta regolarmente quando si parla delle guerre nella regione del Sahel. I paragoni hanno i loro limiti, ma aiutano a comprendere cosa sta accadendo e in che modo. Il 22 novembre in questa rubrica ho parlato della “sindrome afgana” a proposito dell’impegno francese in Sahel, dunque non si tratta di una novità.
Parlare di “sindrome afgana” significa evocare una guerra impossibile da vincere – come hanno constatato tutti gli invasori dell’Afghanistan nell’ultimo secolo – ma anche impossibile da abbandonare senza perdite eccessive. È ciò che ha scoperto Donald Trump, che vorrebbe ritirare le sue truppe dal paese, ma ancora non ci riesce.
In un certo senso la situazione in Sahel è paragonabile a quella in Afghanistan. Nel 2013 il presidente francese François Hollande aveva deciso di intervenire in Mali per impedire a una colonna jihadista di impossessarsi di Bamako dopo aver occupato il nord del paese. In quell’occasione l’esercito francese aveva fermato i jihadisti e riconquistato Timbuctù e Gao senza troppe difficoltà.
Poi però sono arrivati problemi. I jihadisti, come un’idra (paragone spesso avanzato), non smettono di risorgere ed estendono il loro raggio d’azione approfittando della complicità dei clan, delle contraddizioni ancestrali, dei traffici di tutti i tipi e della debolezza degli stati postcoloniali.
Come in Afghanistan, anche in questo caso l’allontanamento è proibitivo quanto lo è la vittoria
I 4.500 soldati francesi dell’operazione Barkhane costituiscono di fatto la principale forza operativa nella regione, e devono intervenire in una zona grande almeno sei volte più della Francia, desertica o semidesertica. Una missione impossibile, insomma.
Come in Afghanistan, anche in questo caso l’allontanamento è proibitivo quanto lo è la vittoria. Il 26 novembre il leader di La France insoumise (sinistra radicale) Jean-Luc Mélenchon ha chiesto al governo di valutare “una via d’uscita da una guerra il cui senso sfugge ormai a molti compatrioti e maliani”. Ma quale governo si assumerebbe la responsabilità di lasciare campo libero ai terroristi, a Bamako come a Kabul?
Debolezza degli stati
La strategia francese, immutata dal 2013, consiste nel forzare una “africanizzazione” della lotta contro i jihadisti, con la costituzione del G5-Sahel, il gruppo di stati della regione. Ma questo approccio si scontra con la debolezza dei governi e dei loro eserciti. Così si spiega l’appello lanciato dalla ministra delle forze armate francese Florence Parly, che ha chiesto l’aiuto dell’Europa per formare gli eserciti africani.
Un altro parallelo con l’Afghanistan nasce dalla facilità con cui si passa dal ruolo di liberatori a quello di occupanti agli occhi della popolazione locale. È un rischio che complica qualsiasi impegno militare, ed è precisamente ciò che vogliono i jihadisti. I militari francesi sono perfettamente consapevoli di questa “sindrome afgana” che pesa sulla loro missione in Sahel. I morti del 26 novembre sono l’ennesimo promemoria.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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