La scena è stata immortalata dalle telecamere: l’ambasciatore cinese in Nigeria, convocato dalle autorità del paese più popoloso d’Africa, è stato costretto a guardare alcuni filmati su un cellulare. In questo modo il presidente del parlamento nigeriano ha voluto mostrargli le immagini che hanno sconcertato il continente. A Canton, nel sud della Cina, alcuni africani sono stati cacciati dalle loro abitazioni e obbligati a dormire in strada per il sospetto che fossero affetti da covid-19, mentre all’entrata di un centro commerciale sono stati affissi alcuni cartelli in inglese per indicare un divieto d’ingresso “per i neri” per ragioni di salute pubblica.

È bastato che cinque nigeriani fossero risultati positivi al virus per produrre un riflesso anti-africano nella città cinese che conta il maggior numero di migranti di origini africane. Molti di loro, non tutti regolari, portano avanti attività commerciali in Cina, e alcuni sono si sono sposati nella loro terra adottiva. Oggi un milione di cinesi vive nel contiene africano. Meno risaputo è il fatto che decine di migliaia di africani abbiano seguito la rotta inversa verso la Cina.

Finora questa convivenza non aveva creato grossi problemi, ma il virus emerso inizialmente in Cina rende tutti più nervosi. La Cina teme una “seconda ondata” di contagi, e le autorità insistono sul fatto che i nuovi casi siano “importati” dall’Europa, dagli Stati Uniti, dalla Russia – di recente una città di frontiera nel nord della Cina stata messa in quarantena – e appunto dall’Africa.

La paura del ritorno dell’epidemia, ora che la Cina tenta un rilancio dell’economia, trasforma ogni straniero in un sospetto

La paura del ritorno dell’epidemia, proprio nel momento in cui la Cina tenta una riapertura e un rilancio della sua economia, trasforma ogni straniero in un sospetto, con tanto di deriva razzista a Canton.

La ricerca del capro espiatorio
Purtroppo la ricerca di un capro espiatorio è molto frequente quando si verifica una catastrofe inspiegabile. È senz’altro il caso del virus Sars-cov-2.

Il paradosso delle scene viste a Canton è che nelle prime settimane dell’epidemia le vittime di episodi di razzismo erano stati proprio i cinesi e più in generale le persone di origine asiatica. Ricordiamo tutti le aggressioni in Europa o negli Stati Uniti contro gli asiatici, invitati a “tornare a casa loro” a causa del virus.

Negli Stati Uniti Donald Trump si è prestato a questa stigmatizzazione definendo il Sars-cov-2 un “virus cinese”, nonostante a livello internazionale sia proibito collegare una malattia a un paese, a un gruppo etnico o a una minoranza sessuale.

In questo modo c’è il rischio di creare un circolo vizioso di rappresaglie. Le immagini che arrivano da Canton hanno suscitato reazioni molto forti nei paesi d’origine dei migranti. In Kenya è stata lanciata una campagna con lo slogan “China go home”, “la Cina deve andarsene”. Evidentemente è una brusca inversione di rotta dopo i gesti di solidarietà cinese con l’invio in Africa di attrezzature sanitarie per combattere il virus.

Altrove sono stati indicati capri espiatori diversi, e i social network hanno veicolato questa ostilità. Il finanziere statunitense di origine ungherese Georges Soros, per esempio, è diventato il bersaglio di una campagna dai toni antisemiti. Tra le vittime della rabbia indiscriminata ci sono anche i migranti rinchiusi nei disumani campi profughi della Grecia. La paura dell’“altro”, collettivo e astratto, non ha mai portato a niente di buono. Soprattutto in tempi di pandemia.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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