Tre settimane dopo aver preso il potere, l’esercito birmano si trova a dover gestire una situazione imprevista. Né l’imposizione della legge marziale né gli arresti né i primi morti e nemmeno le minacce sempre più precise hanno fermato la popolazione, che ogni giorno scende in piazza per chiedere il ritorno della democrazia e la liberazione di Aung San Suu Kyi.

La sera del 21 febbraio, dopo un fine settimana in cui sono morti tre manifestanti, l’esercito ha messo in guardia i giovani facendogli presente che rischiano la vita. Il 22 febbraio, però, la folla nelle strade di Rangoon e di altre grandi città del paese era ancora più numerosa. Alle manifestazioni si è aggiunto uno sciopero generale.

Dato che le minacce e l’inizio della repressione non funzionano, quale opzione resta ai generali per portare avanti l’escalation ed evitare di perdere tutto?

Pressioni esterne senza peso
Su Twitter lo storico birmano Thant Myinth-U ha scritto: “Il risultato delle prossime settimane sarà determinato unicamente da due fattori: la volontà di un esercito che già in passato ha represso altre rivolte e il coraggio, la determinazione e l’abilità dei manifestanti. Niente è già deciso”.

Questo significa che gli interventi internazionali non avranno peso. Il processo politico avviato da tre settimane in Birmania non lascia spazio, almeno per il momento, alle pressioni esterne.

La dinamica della crisi è del tutto interna e sembra non esserci spazio per un compromesso

Il 23 febbraio i ministri degli esteri dell’Unione europea si sono riuniti per discutere le sanzioni contro gli autori del colpo di stato. Tuttavia, anche se per i militari sono in gioco consistenti interessi finanziari, niente potrà convincerli a fare un passo indietro. L’esercito, infatti, ha attraversato il Rubicone e intende andare fino in fondo. La dinamica della crisi è dunque del tutto interna, ed evidentemente non è quella che avevano previsto i generali.

Secondo il professor Thant Myinth-U per i militari il colpo di stato era un semplice “riequilibrio istituzionale”, anche perché l’esercito controlla già le leve fondamentali del potere. Ma attaccando Aung San Suu Kyi e il suo partito, usciti vincitori dalle elezioni legislative del novembre 2020, i generali potrebbero aver involontariamente scatenato “un processo rivoluzionario”, come sottolinea lo storico.

Dopo tre settimane di scontro quotidiano tra una popolazione determinata e un esercito che non può arretrare, sembra non esserci spazio per il compromesso. Difficile immaginare che Aung San Suu Kyi possa uscire dalla sua residenza sorvegliata e accettare nuovamente di dividere il potere con le persone che hanno voluto rovesciare il suo governo.

Ma soprattutto gli autori del colpo di stato non hanno colto l’affermazione di una nuova generazione che è in prima linea nei cortei.

La storia della Birmania è piuttosto violenta, con una lunga dittatura militare, massacri come i tremila morti del 1988, ribellioni etniche e altri drammi recenti come l’espulsione dei rohingya. Eppure i giovani birmani non portano il peso di questo passato, e scendono in strada per salvare un presente e un futuro improvvisamente messo in pericolo dal colpo di stato. Sarebbe tragico se la vitalità che stanno mostrando cadesse sotto i colpi di un esercito che ha determinato fin troppo il destino di questo paese tormentato.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Leggi anche:

Internazionale ha una newsletter settimanale che racconta cosa succede in Asia. Ci si iscrive qui.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it