Le crisi internazionali (e quella al confine tra Polonia e Bielorussia lo è di certo) possono avere due obiettivi: mettere alla prova l’avversario o cercare di ottenere un risultato concreto.
Nel caso del tentativo della Bielorussia di provocare una febbre migratoria in alcuni stati dell’Unione europea – Lituania, Estonia e ora Polonia – non è ancora chiaro quale sia l’obiettivo finale.
Il dittatore bielorusso Aleksandr Lukašenko pensa davvero di poter costringere gli europei a cancellare le sanzioni imposte al suo paese? Oppure sta soltanto sottoponendo l’Unione a un test geopolitico per valutarne l’unità, le capacità di difesa e lo stato dell’opinione pubblica sul tema sensibile dei migranti?
Quali che siano le reali intenzioni di Lukašenko (e il grado di coinvolgimento del presidente russo Vladimir Putin, alleato sempre più indispensabile del regime di Minsk), gli europei sanno di giocarsi la propria credibilità, e devono agire di conseguenza.
Finora l’Unione europea è riuscita a evitare la trappola delle divisioni (in cui invece era caduta in occasione della crisi migratoria del 2015) e questo nonostante le critiche più che giustificate all’intransigenza polacca davanti a quella che è chiaramente anche una crisi umanitaria.
In pochi giorni le pressioni europee sono riuscite a ridimensionare il ponte aereo creato tra diverse capitali del Medio Oriente e la Bielorussia, dove i migranti arrivavano pagando qualche migliaio di euro spinti dalla promessa di un ingresso facile in Europa.
La scelta di campo della Polonia
La sera del 16 novembre i ministri degli esteri e della difesa dei 27 si ritroveranno a Bruxelles. La riunione era prevista da tempo, ma sarà senz’altro dominata da questa crisi. Gli europei metteranno a punto nuove sanzioni, non tanto per ottenere un impatto immediato ma per far capire a Lukašenko che il suo ricatto non funzionerà.
La vicenda, però, non finirà qui, perché a questo punto un’internazionalizzazione della crisi appare inevitabile.
I tre paesi coinvolti – Lituania, Estonia e Polonia – vorrebbero invocare l’articolo 4 della carta della Nato, in base al quale è necessario avviare consultazioni tra i paesi membri “ogni volta che l’integrità territoriale, l’indipendenza politica o la sicurezza” di uno di essi sono minacciate.
È stato il primo ministro polacco ad annunciarlo il 15 novembre, facendo valere “l’assicurazione sulla vita” americana rispetto a Putin. Nessuno dubita che i francesi e la Commissione europea avrebbero preferito gestire la crisi a livello dei 27, ma conosciamo la sfiducia della Polonia nei confronti di Bruxelles.
Lukašenko, dal canto suo, chiede il dispiegamento alla frontiera di missili russi capaci di colpire a 500 chilometri di distanza. Una richiesta che appare poco credibile, come la minaccia sulla fornitura di gas.
La ragione spingerebbe verso un allentamento della tensione, come sembra indicare l’offerta intermediazione presentata il 15 novembre da Putin. Ma al contempo la Russia sta ammassando soldati alle frontiere con l’Ucraina, suscitando grande preoccupazione.
A prescindere dalle motivazioni, è chiaro che questa crisi alle frontiere dell’Unione non sarà l’ultima del suo genere: i 27 lo sanno bene, e si preparano a incontrarsi a Bruxelles consapevoli di dover assolutamente ottenere un risultato.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it