Due settimane fa il presidente del Burkina Faso, Roch Marc Christian Kaboré, ha partecipato a un vertice regionale in cui sono state imposte pesanti sanzioni ai golpisti in Mali. Oggi, però, lo stesso Kaboré è stato vittima di un colpo di stato militare, e la sua sorte al momento è sconosciuta.

Il Burkina Faso, uno degli stati della regione del Sahel, è il terzo paese a subire un colpo di stato nel giro di pochi mesi, dopo la Guinea e il Mali. I golpe salgono a quattro se includiamo la successione poco ortodossa in Ciad dopo la morte del presidente Idriss Déby. Per non parlare del Sudan, più a est, dove i militari hanno bloccato il processo verso il ritorno della democrazia.

Perché questa epidemia di colpi di stato? Ogni paese ha la sua storia e le sue peculiarità, ma nel caso del Mali e del Burkina Faso è innegabile che l’impasse nella lotta contro il terrorismo jihadista abbia minato la società e un apparato statale fragile, generando frustrazione e collera.

In Burkina Faso l’attacco jihadista di Inata, a novembre, ha causato la morte di una cinquantina di gendarmi, segnando un punto di svolta. La gestione del presidente Kaboré e la sua scelta di appoggiare le milizie dei villaggi, insieme al valzer dei ministri della difesa e all’assenza di risultati, hanno segnato le sua sorte.

Ma davvero l’esercito rappresenta una soluzione?

Come scrive il mio amico Francis Laloupo su Twitter, questa è “l’epoca delle risposte sbagliate alle domande giuste”. I militari pongono una domanda legittima riguardo ai mezzi, all’attività del governo e alla strategia. Ma non hanno una vera risposta.

In Burkina Faso il ritorno della democrazia è coinciso con l’incremento dell’azione jihadista

In Mali l’esercito si è cacciato in un vicolo cieco facendo appello ai mercenari dell’azienda militare privata russa Wagner e proponendo un calendario irrealistico per il ritorno alla vita civile, con una transizione di ben cinque anni. Questo ha innescato le severe sanzioni da parte degli altri paesi.

In Burkina Faso i militari hanno preso possesso di un potere che la società civile aveva riconquistato appena sette anni fa, dopo il lungo regno di Blaise Compaoré, un altro ex golpista. Ma il ritorno della democrazia è coinciso con l’incremento dell’azione jihadista, e il paese, tra i più poveri al mondo, non ha retto.

Quale impatto ha tutto questo sulla presenza francese nella regione?

Evidentemente parliamo di un fallimento francese, nella misura in cui il modello di governo attualmente indebolito è quello che la Francia ha incoraggiato e sostenuto. Questa almeno è la percezione della popolazione locale, che rimprovera alla presenza militare francese di non averla protetta dai terroristi e a Parigi di essersi schierata sempre dalla parte dei governi e mai delle società civili.

La Francia, che ha appena perso un altro soldato (in tutto sono 53) nell’attacco contro un campo dell’operazione Barkhane in Mali, si trova davanti scelte difficili. In Mali è in aperto conflitto con i militari, padroni del paese, mentre in Burkina Faso il 24 gennaio il portavoce della giunta si è preoccupato di precisare che gli impegni internazionali del paese saranno rispettati, ma il futuro del paese è improvvisamente incerto.

È in discussione l’intera strategia francese in Sahel, mentre un enorme punto di domanda aleggia sul modello degli stati africani dopo un periodo di democratizzazione poco convincente. In attesa delle risposte, l’epidemia del potere militare prosegue.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Internazionale ha una newsletter settimanale che racconta cosa succede in Africa. Ci si iscrive qui.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it