Non dobbiamo affrettarci a parlare di tensione in discesa, ma possiamo dire che il 15 febbraio la macchina della comunicazione russa ha sfruttato l’occasione per smentire quella statunitense diffondendo immagini di carri armati che ritornano nel loro presidio dopo aver concluso le manovre nei pressi della frontiera ucraina. È un modo per contraddire l’allarmismo di Washington, che aveva previsto un attacco russo imminente indicando il 16 febbraio come data probabile.
Gli statunitensi, dal canto loro, hanno ribaltato la prospettiva sostenendo di aver dissuaso la Russia dall’aggressione lanciando l’allarme. In questo gioco non ci sono vincitori.
Tuttavia la crisi russo-ucraina è ben lontana dalla sua conclusione, per diverse ragioni. Prima di tutto perché gli effettivi mobilitati sono talmente numerosi che i movimenti di truppe del 15 febbraio dovranno essere confermati per diversi giorni prima di diventare significativi.
Ma soprattutto non c’è traccia di una distensione politica né del minimo progresso diplomatico. Di conseguenza bisognerà seguire da vicino diversi aspetti di questa crisi multiforme per capire se è stata semplicemente messa in pausa.
Il primo di questi aspetti è militare: l’unico impegno preso da Vladimir Putin in occasione della visita del presidente francese Emmanuel Macron della settimana scorsa è che i circa trentamila soldati russi presenti in Bielorussia per partecipare a una serie di manovre ripartiranno al termine delle operazioni, il 20 febbraio.
I vicini della Bielorussia assistono preoccupati all’integrazione progressiva del paese nell’orbita russa dopo l’isolamento successivo alle elezioni manipolate dal presidente Aleksandr Lukašenko nell’estate del 2020. Il mantenimento di un contingente russo sarebbe un ulteriore segnale di questa evoluzione.
Il secondo test riguarda la situazione nel Donbass, nell’Ucraina orientale, in guerra embrionale dal 2014. Il 15 febbraio, ricevendo il cancelliere tedesco Olaf Scholz, Putin ha parlato di “genocidio” nel Donbass, sottintendendo che le vittime sono le popolazioni russofone della zona. La parola “genocidio” è assurda secondo tutti gli esperti, ma potrebbe servire da pretesto per un intervento in caso di necessità.
Sempre il 15 febbraio il parlamento russo ha adottato una risoluzione che chiede il riconoscimento delle due repubbliche separatiste del Donbass, cosa che Putin si rifiuta di fare, almeno per il momento. Ma anche questo elemento è una spada di Damocle che minaccia l’Ucraina, che rischia lo smembramento. Putin prima o poi dovrà scegliere tra il riconoscimento dei separatisti filorussi e il rispetto degli accordi di Minsk, che dovrebbero segnare il ritorno del Donbass pienamente all’interno dell’Ucraina.
Facendo esplodere questa crisi, ormai tre mesi fa, il presidente russo ha voluto bloccare l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, mettere alla prova l’unità e la coesione dei suoi avversari occidentali e imporre un rapporto di forze più favorevole a Mosca. Il primo obiettivo è stato evidentemente raggiunto: l’Ucraina non è pronta a entrare nella Nato, ma questo si sapeva già. Ciò che resterà è un veto de facto, anche se non sancito nero su bianco.
Per il resto Putin ha senza dubbio modificato i rapporti di forze inviando il suo esercito e minacciando i suoi avversari, ma non è nella posizione di trarne profitto.
La domanda senza risposta, oltre che l’ultimo aspetto cruciale della crisi, riguarda la possibilità che Putin si accontenti di questo magro bottino senza cercare, in un modo o nell’altro, di incrementare la pressione sui vicini (e con quali tempi). In tutto questo l’instabilità rischia di essere la norma ancora a lungo.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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