Il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov, vecchia volpe della diplomazia prima sovietica e poi russa (o sarebbe meglio dire “putiniana”), potrebbe aver fornito una chiave di lettura della crisi attuale. In un’intervista concessa all’emittente francese Tf1 la sera del 29 maggio, Lavrov ha posto alla giornalista una domanda che evidentemente riteneva pertinente: “Cosa farebbe la Francia se il Belgio vietasse l’uso della lingua francese?”.
La domanda mi ha gettato in un abisso di perplessità. La mia prima reazione è stata quella di rispondere “be’, niente!”, laddove Lavrov immaginava senza dubbio che Parigi si comporterebbe come Mosca, invadendo il nostro tollerante vicino e accusandolo di nazismo. Ma in realtà la domanda di Lavrov dice molto sulla sua visione del mondo.
Prima di tutto evidenzia quanto poco il ministro conosca l’Unione europea che, come diceva l’ex presidente della commissione Jacques Delors, è una “macchina per fabbricare compromessi.” A volte è un processo laborioso e frustrante, ma ha l’obiettivo di evitare i rapporti di forza brutali che hanno prodotto disastri enormi nella storia europea. Noi non risolviamo le divergenze inviando i carri armati.
Rapporti di forza
Vista da Mosca, questa ricerca permanente del compromesso è un segnale di debolezza. Lo spettacolo dei vertici europei che si protraggono all’infinito perché uno stato blocca una decisione fa orrore ai paladini del potere autoritario. E ammettiamolo, infastidisce anche gli europei. Ma in realtà in questo modo riusciamo a superare le contraddizioni tra stati che hanno storie differenti.
L’uscita di Lavrov rivela un aspetto chiave: secondo Mosca il mondo è ancora quello dei rapporti di forza. La Russia non si è sbarazzata della sua doppia eredità imperiale e stalinista e non riesce a considerare i suoi vicini come eguali. Il Cremlino, inoltre, non accetta che si possa essere russofoni senza voler per forza tornare nella sfera d’influenza della Russia, come dimostra il caso dell’Ucraina.
In Russia un razzismo quotidiano colpisce tatari, buriati, baschiri, ceceni, ebrei e altri
Ironia amara, la specialista francese della società russa Anna Colin-Lebedev ha sottolineato il 30 maggio su Twitter che “la giustificazione del Cremlino legata all’oppressione dei russofoni in Ucraina spinge i rappresentanti delle minoranze etniche in Russia a raccontare la repressione della loro lingua e della loro etnia”. Un razzismo quotidiano che colpisce tatari, buriati, baschiri, ceceni, ebrei e altri.
Lavrov ha dunque sbagliato argomento, e non è la prima volta. All’inizio di maggio il ministro aveva innescato una crisi con Israele inventando antenati ebrei di Hitler per screditare il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj. Mosca in seguito ha presentato le proprie scuse.
Tutto questo evidenzia soprattutto una spaccatura temporale. Lavrov e parte dei dirigenti russi sono ancora formattati dal loro passato sovietico, legati al mondo di ieri mentre una parte della popolazione, quella che emigra a decine di migliaia di persone e quella che occupa gli antichi possedimenti, vorrebbe una modernità incarnata dal sogno imperfetto dell’Europa.
Questa separazione temporale è difficile da cancellare, e ricorda una vecchia battuta di spirito di epoca sovietica: quando un aereo atterrava a Mosca si consigliava ai passeggeri di regolare gli orologi portandoli “vent’anni indietro”. L’orologio di Lavrov è fermo ai tempi dell’Urss.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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