La guerra a Gaza non è affatto vicina alla sua fine, eppure è già arrivato il momento di parlare del dopo. Il 7 novembre l’emittente televisiva statunitense Abc ha affrontato l’argomento con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, le cui parole hanno sorpreso tutti: “Israele si assumerà la responsabilità della sicurezza” nella Striscia di Gaza.
La risposta di Netanyahu potrebbe significare una nuova occupazione de facto del territorio palestinese. Ma questo non è l’obiettivo primario della guerra scatenata da Israele, che intende cancellare il movimento islamista Hamas. Tra l’altro le parole di Netanyahu smentiscono quelle pronunciate in precedenza dal ministro della difesa israeliano, secondo cui lo stato ebraico non vuole avere più nulla a che fare con Gaza.
L’argomento è tanto più delicato se consideriamo che rischia di far emergere divergenze con gli Stati Uniti, principale alleato e sostenitore di Israele. “Non siamo favorevoli a una rioccupazione di Gaza”, ha detto immediatamente il dipartimento di stato americano.
Prima degli attacchi del 7 ottobre, che hanno radicalmente cambiato la situazione, la Striscia di Gaza era gestita da Hamas, al potere dal 2006. Non c’era più alcuna presenza israeliana, al contrario di quanto succede in Cisgiordania, anche se Israele imponeva un blocco su Gaza e aveva un peso enorme sulla vita della popolazione.
La risposta del primo ministro israeliano può avere diverse interpretazioni, e bisogna notare che Netanyahu non ha parlato esplicitamente di nuova occupazione.
In ogni caso, al di là del rifiuto di tornare alla situazione precedente al 7 ottobre, Israele non ha mai chiarito quale sia la sua visione per il dopoguerra a Gaza.
Nelle prossime settimane o mesi bisognerà rispondere a questo interrogativo, anche perché più di due milioni di persone si ritroveranno nella povertà più assoluta, con città rese inabitabili dal diluvio di bombe e dipendenti al 100 per cento da un aiuto internazionale senza cui nessuno sopravviverebbe.
Chi gestirà Gaza? Gli statunitensi vorrebbero un ritorno dell’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen, ma l’organizzazione, già molto indebolita, incontrerebbe enormi difficoltà a farsi accettare qualora sembrasse imposta dall’esercito israeliano.
La vera questione sollevata dalla dichiarazione di Netanyahu è quella di sapere se davvero sarà solo Israele a decidere il futuro di Gaza. Il 7 novembre il portavoce della diplomazia statunitense è stato chiaro: “Secondo noi i palestinesi dovranno essere al centro delle decisioni. Gaza è un territorio palestinese e tale resterà”. Tra sei mesi o un anno sottoporremo questa frase alla prova della realtà.
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Gli statunitensi hanno interessi che non coincidono necessariamente con quelli di Netanyahu, anche perché vorrebbero moderare la loro immagine di sostenitori senza condizioni della guerra israeliana, a cui sono particolarmente contrari gli elettori di Biden, oltre che il mondo arabo e i paesi del sud globale.
Netanyahu, dal canto suo, non vuole entrare in un processo politico che potrebbe portare alla creazione di uno stato palestinese, un’ipotesi alla cui distruzione si dedica ormai da un quarto di secolo.
Per il momento l’esercito israeliano avanza sempre di più nella Striscia di Gaza, ma sa per esperienza che entrare è più facile che uscire. Quel giorno arriverà. E la politica non concepisce il vuoto.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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