Da tre mesi tutti ripetono che né l’Iran né gli Stati Uniti vogliono entrare in rotta di collisione. Eppure, passo dopo passo, l’escalation del conflitto prosegue, in un’area piena di pericoli compresa tra il nord della Siria, l’Iraq, il golfo di Aden e il mar Rosso.
Per rendersene conto basta considerare gli eventi delle ultime 24 ore. I Guardiani della rivoluzione, braccio armato del regime iraniano dei mullah, hanno lanciato alcuni missili balistici sul nord della Siria e su Erbil, capitale della regione autonoma curda dell’Iraq, uccidendo diversi civili. Un missile lanciato dai ribelli huthi dello Yemen, sostenuti dall’Iran, ha colpito una nave commerciale statunitense diretta verso il canale di Suez. Le forze speciali statunitensi (navy seal) hanno intercettato un’imbarcazione al largo della Somalia, trovando a bordo componenti di missili balistici evidentemente di provenienza iraniana. Due soldati sono morti durante l’operazione, prime vittime statunitensi dopo l’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre.
A tutto questo bisogna aggiungere i bombardamenti americani e britannici dei giorni precedenti contro gli huthi nello Yemen. Se non è una vera e propria guerra, ci va molto vicino. È importante capire qual è la posta in gioco in questa pericolosa escalation che potrebbe degenerare da un momento all’altro.
Dopo l’attacco compiuto da Hamas del 7 ottobre e la guerra scatenata da Israele nella Striscia di Gaza, le forze del cosiddetto asse della resistenza (libanesi, palestinesi, siriani e altri gruppi sostenuti dall’Iran contrari a Israele) sono entrate in azione in tutta la regione, dallo Yemen al Libano. Ma lo hanno fatto in modo estremamente calcolato.
Non si tratta di una guerra a oltranza come quella tra Israele ed Hezbollah del 2006, ma piuttosto di un modo per esprimere sostegno ad Hamas senza rischiare di arrivare a un conflitto totale. Gli esperti della scena libanese assicurano che Hezbollah, armato e finanziato dall’Iran, non vuole assolutamente una guerra di questo genere.
Gli huthi invece si sono mostrati molto più aggressivi, compromettendo il traffico marittimo nel mar Rosso attraverso lanci ripetuti di missili e trascinando gli statunitensi nel circolo vizioso delle provocazioni e delle reazioni.
Ma anche in questo caso non siamo davanti a uno scontro frontale. Gli huthi combattono da decenni, prima durante una guerra civile yemenita e poi nel conflitto con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Dunque sanno bene come sopravvivere a situazioni del genere. Con il minimo sforzo, sono riusciti a coinvolgere la flotta statunitense e anche gli europei, che hanno deciso di organizzare un’operazione per proteggere le navi commerciali. Per gli huthi si tratta di un successo politico inaspettato, che ha un grande significato sul fronte interno.
Tuttavia, il vero dubbio riguarda l’Iran, appena entrato in azione con il lancio di missili da parte dei Guardiani della rivoluzione. Al momento la tesi iniziale, quella secondo cui Teheran non intende varcare la soglia dell’ingresso in guerra, sembra la più plausibile. Il paese, infatti, ha troppo da perdere per spingersi oltre il sostegno ai propri alleati nella regione. Il problema è che questo gioco dell’escalation controllata è molto pericoloso: fino a quando la guerra a Gaza andrà avanti ci sarà sempre il rischio di innescare all’improvviso una spirale imprevedibile, anche senza che nessuno lo voglia davvero.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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