È stato facile decodificare i messaggi di congratulazioni arrivati a Donald Trump. Da una parte c’erano gli entusiasti come l’ungherese Viktor Orbán o l’israeliano Benjamin Netanyahu; dall’altra gli inquieti, a cominciare dall’ucraino Volodymyr Zelenskyj; e infine quelli che hanno scelto l’approccio business as usual come Emmanuel Macron, che ha partecipato a un primo colloquio telefonico con il presidente eletto come se la vita continuasse normalmente.

Ma non sarà così, e lo sappiamo bene. La vittoria di Trump non è il risultato di una semplice alternanza democratica, ma il segnale di una svolta in un momento di ridefinizione dei rapporti di forza a livello mondiale. La personalità e le posizioni politiche del prossimo leader della prima potenza mondiale avranno effetti su tutti i continenti, sulla pace e sulla guerra, sull’economia e sul clima.

Per immaginare la politica estera della seconda era Trump non esistono manuali. Fanno fede l’esperienza del primo mandato, dal 2016 al 2020, e quello che sappiamo delle sue inclinazioni e dei suoi punti fermi.

Prima di tutto, se vogliamo analizzare la visione internazionale di Trump, dobbiamo rinunciare alle griglie di lettura tradizionali. Il futuro presidente non è isolazionista (come lo sono stati gli Stati Uniti in alcuni momenti della loro storia) ma non è neanche internazionalista (come lo è stato in passato il partito repubblicano).

Trump sarà spietato nel campo della diplomazia economica, come dimostra il fatto che brandisca la minaccia dei dazi contro gli europei, i cinesi e tutti quelli che a suo parere danneggiano gli Stati Uniti. Poi c’è la questione delle alleanze: la Nato, i trattati con la Corea del Sud, il Giappone e in una certa misura Taiwan. Per Trump non c’è niente di sacro, come abbiamo potuto verificare durante il suo primo mandato. Allo stato attuale nessuno conosce le sue reali intenzioni sui temi più caldi, al di là di qualche frase.

La prima indicazione arriverà dalla scelta dei componenti della sua squadra. Il 6 novembre il Financial Times ha scritto che Richard Grenell potrebbe essere il prossimo segretario di stato. Se così fosse, sappiamo cosa aspettarci. Grenell, molto vicino a Trump, è stato ambasciatore in Germania durante il primo mandato del futuro presidente e le sue ingerenze coloniali hanno spinto Martin Schulz, ex presidente del parlamento europeo, a definirlo “un ufficiale coloniale di estrema destra”.

Poi c’è il ruolo di Elon Musk, capo di X, della Tesla e della SpaceX, che sembra entrato nella cerchia ristretta dei fedelissimi di Trump e incarna il nuovo peso delle aziende tecnologiche nei rapporti geopolitici. Quale sarà il suo margine di manovra nella prossima amministrazione? Di sicuro Musk avrà un peso rilevante a livello internazionale, dove tra l’altro è già molto influente attraverso la sua galassia di aziende, con le sue contraddizioni, i suoi interessi, i suoi investimenti in Cina e la sua visione libertaria.

L’unica certezza è che stavolta non ci saranno “adulti nella stanza”, come erano stati soprannominati i generali e i rappresentanti dell’establishment che durante il primo mandato avevano cercato di arginare gli eccessi di Trump. Nel suo secondo mandato Trump vorrà liberarsi di quello che chiama “lo stato profondo” e si appoggerà a Project 2025, un programma preparato dall’Heritage foundation, organizzazione di estrema destra che ha stilato una lista di alti funzionari da sostituire.

Dunque sarà un Donald Trump senza freni quello che farà il suo ritorno sulla scena internazionale, con una sola parola d’ordine: “Make America great again”. E tanto peggio per gli altri.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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