Dopo la caduta di Bashar al Assad gli interrogativi sull’orientamento dei nuovi capi della Siria incombono all’orizzonte. Per il momento viviamo ancora l’emozione delle carceri che si svuotano, del ritorno dei primi esuli e della gioia che nasce dalla fuga di un tiranno, ma la storia di altre dittature rovesciate nel mondo arabo lascia intravedere le trappole che la Siria dovrà evitare se vuole ritrovare una certa stabilità dopo una guerra civile durata tanti anni.

L’Iraq ha vissuto la caduta di Saddam Hussein dopo l’invasione statunitense, mentre la Tunisia ha rovesciato Ben Ali nella prima rivoluzione delle primavera arabe. In seguito la stessa sorte è toccata a Mubarak in Egitto e a Gheddafi in Libia.

Ognuna di queste transizioni dopo l’uscita di scena di un leader autoritario ha suscitato grandi speranze, che però sono state regolarmente disattese. I nuovi leader siriani conoscono bene questa storia, che è in parte la loro storia. Ma sapranno evitare le insidie?

Il caso dell’Iraq – che il nuovo uomo forte di Damasco Abu Mohammed al Jolani ha ben presente, dato che ha operato nei ranghi dei jihadisti – è emblematico. Il grande errore commesso dagli statunitensi dopo aver rovesciato Saddam nel 2003 è stato quello di emarginare chiunque avesse fatto parte dell’esercito e dell’amministrazione del regime. Il risultato è stato che le stesse persone sono entrate a far parte del gruppo Stato islamico e hanno seminato il terrore. La Siria si ritrova alle prese con un dilemma simile dopo decenni di clientelismo e nepotismo.

L’altra trappola irachena è stata quella posta dal confessionalismo, e anche sotto questo aspetto la Siria appare vulnerabile. Gli Assad fanno parte della minoranza alawita, vicina agli sciiti. Molti alawiti oggi temono di subire ritorsioni.

La questione curda, un altro elemento che lega l’Iraq e la Siria, solleva un doppio problema: quello del trattamento da riservare alle minoranze e quello delle ingerenze della Turchia. Oggi esiste il rischio concreto di vedere nascere gravi divisioni regionali paragonabili a quelle che continuano a straziare la Libia tredici anni dopo la fine della dittatura di Gheddafi.

Il sistema politico ha compromesso la transizione in Tunisia ed Egitto. Questi due paesi hanno provato a far funzionare la democrazia, ma l’esperienza è stata breve a causa dell’attività dei Fratelli musulmani e di un caos politico sconnesso dalla vita della gente comune. In entrambi i casi l’autoritarismo è tornato a imporsi.

In Siria gli equilibri politici sono ancora sconosciuti, anche se il partito islamista Hts di al Jolani è dominante. Il nuovo uomo forte della Siria, che non è certo un democratico, sostiene di aver tagliato i ponti con il jihadismo. Tuttavia nella regione di Idlib, che controllava già prima dell’inizio della sua offensiva, ha governato con il pugno di ferro, suscitando diverse tensioni.

Quale equilibrio sarà possibile tra le varie fazioni siriane? Quali istituzioni potranno essere create? Quale sarà il ruolo delle donne e delle minoranze etniche e religiose? Quali alleanze internazionali verranno strette? Finora al Jolani ha dato prova di pragmatismo, preoccupandosi di rispettare le minoranze e di non imporre nulla alle donne. Possiamo credere che manterrà questa linea sul lungo periodo?

Quest’uomo di quarant’anni dal passato problematico ha studiato a fondo le esperienze dei paesi della regione. Oggi in Siria non mancano né i talenti né i mezzi per far rinascere il paese, a condizione di non cadere nelle trappole che sono risultate fatali ad altri.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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