Quale strategia adottare davanti al “rullo compressore” Donald Trump che vuole imporre la sua legge al resto del mondo? La domanda si ripropone su tutti i continenti che subiscono la minaccia dei dazi o addirittura dell’uso della forza nel caso in cui osino resistere alla volontà del nuovo presidente americano, in carica da appena nove giorni.
La faccenda assume una dimensione particolare in Europa, dove la minaccia arriva dalla stessa persona che in teoria dovrebbe proteggere il continente. Il 28 gennaio, la presenza a Parigi e Berlino (nel quadro di un viaggio europeo) della primo ministro danese Mette Frederiksen ha portato alla ribalta il problema.
Difficile trovare un alleato più fedele agli Stati Uniti di quanto non sia la Danimarca, eppure Copenaghen si ritrova suo malgrado al centro di una tempesta scatenata all’improvviso da Donald Trump, che la alimenta con un’ironia crudele. Il presidente statunitense vuole impossessarsi della Groenlandia, e non demorde. La Danimarca si oppone, mentre il primo ministro democraticamente eletto del territorio associato alla corona danese chiede l’indipendenza, ma non certo per finire sotto il controllo di un altro paese.
La settimana scorsa una telefonata tra Trump e la premier danese è stata piuttosto burrascosa e ha sconvolto il paese nordico. In seguito, il presidente degli Stati Uniti ha ironizzato pubblicamente sulle “slitte trainate da cani” inviate dalla Danimarca per proteggere la Groenlandia. È un comportamento sconveniente, tra alleati. Ma a lui non interessa.
Frederiksen vuole assicurarsi il sostegno dei principali paesi europei, che in effetti sono schierati dalla sua parte. Ma al contempo chiede discrezione, almeno per il momento. I colpi di scena non sono nelle corde della Danimarca, e tra l’altro rischiano di non essere efficaci davanti alla potenza americana.
Alcuni anni fa, quando la Cina ha preso di mira la Lituania per punire i suoi rapporti con Taiwan, l’Europa si è mobilitata per aiutare il paese baltico a resistere. Ma ciò che è stato possibile con la Cina risulta più complicato con gli Stati Uniti.
La questione va oltre il caso danese, perché le pressioni di Washington si fanno sentire in tutto il vecchio continente: con la minaccia di una guerra commerciale, con le pretese sulla spesa militare e con gli inviti ad acquistare gli idrocarburi americani. Per non parlare delle regole imposte alle piattaforme digitali.
In Europa, come sempre, non c’è soltanto un punto di vista. La presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen e quella della Banca centrale europea Christine Lagarde si sono già pronunciate a favore di un maggior acquisto di prodotti statunitensi da parte dell’Europa, senza dubbio per ammansire Trump. Altri, però, vorrebbero “resistere”.
L’Europa ha davvero scelta? L’Unione paga il fatto di non aver ridotto la propria dipendenza dagli Stati Uniti, in particolare nel campo della difesa. Oggi Bruxelles si preoccupa di non criticare troppo la nuova amministrazione per paura di un’uscita del paese dalla Nato.
La questione si ripresenta, crudele, nell’ambito dell’industria della difesa. La stragrande maggioranza delle spese militari in armamenti da parte dei paesi europei finisce nelle tasche dei produttori statunitensi. Il Programma europeo per l’industria della difesa, in fase di discussione, subisce già le pressioni di Washington. Da questa realtà nasce l’allarme lanciato dal presidente francese Emmanuel Macron nel suo discorso rivolto alle forze armate la settimana scorsa: “la nostra vocazione non è quella di essere clienti, ma di essere nazioni sovrane”.
Il problema è che Trump vuole far pagare a tutti la protezione garantita dagli Stati Uniti. Per lui non esistono alleati, ma soltanto acquirenti.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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