È la domanda che nessuno si aspettava di dover mai affrontare, soprattutto considerando il fatto che l’alleanza tra le due sponde dell’Atlantico ha dominato il mondo dopo la seconda guerra mondiale. Un’alleanza che ha resistito a innumerevoli crisi, compresa quella aperta nel 2019 da Emmanuel Macron dichiarando che la Nato era “in stato di morte cerebrale”. Da quel momento, l’intesa transatlantica ha vissuto una fase di ripresa. Una pagina che però è stata voltata da Donald Trump dopo appena un mese trascorso alla Casa Bianca.

Se fosse servito un atto simbolico di questo divorzio non ancora consumato, è arrivato alle Nazioni Unite il 25 febbraio, quando gli Stati Uniti hanno votato una risoluzione sull’Ucraina al fianco della Russia e dei suoi alleati, come la Corea del Nord, schierandosi contro i paesi dell’Unione europea. In quel momento è stato infranto un tabù che sembrava impossibile da scalfire.

Gli europei hanno vissuto con la convinzione che gli Stati Uniti fossero la loro garanzia di sicurezza davanti al ritorno della minaccia russa sul continente. Due anni fa, il leader di un paese dell’Europa del nord mi ha detto che la sua missione era fare in modo che Washington restasse in Europa per proteggerci. Ma quell’obiettivo è evidentemente fallito.

Ma davvero gli Stati Uniti sono diventati un avversario? È questa l’ambiguità della situazione attuale. Ce ne siamo accorti durante la visita lampo di Emmanuel Macron a Washington, dove il presidente francese avrebbe voluto difendere posizioni contrarie a quella di Trump sull’Ucraina ma ha dovuto adeguarsi al rituale dell’adulazione, limitandosi a riaffermare la storica amicizia franco-statunitense. “La Fayette, eccoci qua!”, ha ricordato, citando l’omaggio di Charles E. Stanton agli eroi della rivoluzione francese.

Macron si dichiara convinto che gli Stati Uniti siano ancora un alleato dell’Europa, ma il dubbio è legittimo. Sulle questioni di sicurezza, tra l’altro, il dubbio può risultare fatale.

Questa situazione spiega la girandola di concertazioni e annunci sull’aumento degli investimenti per la difesa che attraversa l’Europa. La mattina del 26 febbraio, i paesi europei si ritroveranno in videoconferenza per ascoltare il resoconto di Macron dopo il suo incontro con Trump. Un mini-vertice sulla difesa è stato fissato per il 2 marzo a Londra, prima del Consiglio europeo del 6 marzo. I leader del vecchio continente non si erano mai parlati così tanto.

I 27 stati dell’Unione sono intrappolati, perché non possono sperare di costruire in poche settimane un’alternativa all’ombrello statunitense e al contempo sanno che non possono più fare affidamento su Washington. Se ad esempio l’Estonia fosse in pericolo, chi crede davvero che Trump si precipiterebbe ad aiutarla?

L’incremento dei budget per la difesa europea è spettacolare. Il 25 marzo è toccato ai britannici annunciare un aumento fino al 2,5 per cento del pil. In precedenza la Danimarca aveva raddoppiato le spese militari, mentre la Polonia si avvicina alla soglia del 5 per cento.

In Francia, Macron valuta la possibilità di arrivare al 3,5 per cento del pil (attualmente la spesa è ancora al 2 per cento) in un contesto finanziario molto teso. Ma in caso di totale disimpegno da parte degli Stati Uniti alcune stime arrivano fino al 7 per cento. Sarebbe un cambiamento epocale.

In ogni caso questi investimenti non significano che la difesa europea diventerà realtà, perché è un meccanismo tutto da costruire. Nell’attesa resta la domanda cruciale: Washington è un alleato o un avversario? E la risposta è: entrambe le cose. In questa ambivalenza risiede tutta la complessità del cambiamento profondo che stiamo vivendo, con il suo corollario di inquietudine.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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