Anche se vive in un carcere turco da ormai 26 anni, Abdullah Öcalan è ancora considerato come un dio vivente da buona parte dei circa quaranta milioni di curdi del Medio Oriente. La sua parola vale come quella di un oracolo, dunque non sorprende che il suo appello del 27 febbraio abbia assunto una dimensione storica.

In una dichiarazione letta da un ex parlamentare curdo che gli ha fatto visita in carcere, Öcalan ha invitato i suoi sostenitori ad abbandonare la lotta armata e ha chiesto lo scioglimento del Partito dei lavoratori del Kurdistan, formazione marxista conosciuta con la sigla Pkk, di cui è il fondatore.

Le richieste di Öcalan segneranno una svolta, soprattutto se saranno esaudite. Da settimane gli stessi temi sollevati da Öcalan sono al centro di un acceso dibattito nei ranghi del Pkk. La direzione del partito, nelle montagne del nord dell’Iraq, ha accettato l’apertura di un dialogo con Ankara, ma non è chiaro se acconsentirà anche allo scioglimento.

In ogni caso, la possibilità di un cambiamento è evidente, non solo in Turchia, ma nell’intera regione. I curdi, infatti, vivono anche in Siria, Iraq e Iran. Non si tratta del primo tentativo di trovare un accordo tra il capo del Pkk e il governo di Ankara. Già nel 2000 e nel 2013 Öcalan aveva chiesto una tregua, ma in seguito erano sempre riprese le violenze. Ora però il leader curdo ha compiuto un passo ulteriore, raccomandando l’abbandono della lotta armata e lo scioglimento del partito.

A ottobre Öcalan aveva confidato ad alcune persone che erano andate a trovarlo di avere “il potere teorico e pratico di trasferire il conflitto dal terreno della violenza a quello giuridico e politico”.

È possibile quindi che il leader del Pkk, che oggi ha 75 anni, abbia ricevuto promesse da parte di Ankara sul riconoscimento dei diritti della minoranza curda (il 20 per cento della popolazione in Turchia), sulla fine della repressione e l’ingresso dei curdi nella vita politica nazionale?

È ancora presto per dirlo, ma non possiamo dimenticare che nel corso degli anni le autorità turche hanno esautorato un’infinità di sindaci e deputati solo perché sospettati di avere legami con il Pkk.

Considerando che il partito ha ramificazioni negli altri paesi popolati dai curdi, le conseguenze della vicenda potrebbero estendersi all’intera regione. Nel nord della Siria, in particolare, gli effetti potrebbero essere considerevoli. Al momento la regione è controllata dalle Forze democratiche siriane, guidate da un’organizzazione affiliata al Pkk. La caduta del regime di Bashar al Assad a dicembre ha cambiato le carte in tavola. Il nuovo padrone della Siria, Ahmed al Sharaa, vorrebbe imporre quello che chiama “il monopolio delle armi”, creando un esercito unico, ma si scontra con il rifiuto delle forze curde.

La situazione è complessa. La Turchia, diventata molto influente a Damasco, minaccia di intervenire militarmente contro i curdi armati in Siria nel quadro della sua lotta contro il Pkk, ma questi ultimi sono protetti dagli statunitensi dopo aver collaborato con Washington durante la guerra contro il gruppo Stato islamico.

Quale sarebbe la conseguenza in Siria di un possibile disgelo in Turchia? Dipenderà dalla dinamica che si creerà tra Öcalan, il presidente turco Erdoğan e il leader siriano Al Sharaa. Una fragile speranza di pace in una regione insanguinata.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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