L’industria va male e ha pochi ordini nel cassetto. Così come l’edilizia. Il commercio al dettaglio non va meglio. Le esportazioni scivolano giù. La fiducia di consumatori e aziende è ai minimi storici. Il credito alle imprese, pietrificato. Una tempesta di numeri negativi si abbatte quotidianamente sulla nostra informazione economica. Ma ci sono numeri con il segno “più”, e sono quelli del lavoro. A dicembre 2018 c’è stato infatti un aumento degli occupati e del tasso di occupazione, e una riduzione della disoccupazione.

In occidente per anni si è parlato di jobless growth, la crescita senza occupazione. Adesso in Italia, secondo le ultime rivelazioni economiche, abbiamo il problema opposto: una recessione con occupazione (o almeno, senza crollo del lavoro). Un apparente paradosso, che sembra destinato a peggiorare: si teme infatti che per il lavoro il peggio debba ancora venire.

Ripartiamo dai dati
Nonostante il presidente del consiglio veda davanti a sé un anno bellissimo e il vicepresidente Luigi Di Maio un nuovo miracolo economico, tutti gli indicatori dei fatti economici mostrano il contrario. Gli ultimi dati disponibili sono quelli sul fatturato e gli ordinativi dell’industria nel mese di dicembre 2018. E dicono che, facendo il confronto con dicembre 2017 e a parità di giorni lavorativi, c’è una riduzione del 7,3 per cento, “con un calo del 7,5 per cento sul mercato interno e del 7 su quello estero”.

Già sapevamo che a dicembre la produzione industriale aveva segnato una flessione sensibile. In linea con questa tendenza sono i risultati del commercio con l’estero. E il dato trimestrale del prodotto interno lordo (pil), che ha certificato il secondo trimestre consecutivo di riduzione della produzione complessiva nel paese: evento che corrisponde alla definizione di recessione tecnica. Se questa è la tendenza complessiva, ci sono poi le diverse realtà nei vari settori, con risultati e previsioni particolarmente negativi per la farmaceutica, l’automobile e i mezzi di trasporto in generale.

Se questo è stato il 2018, ora cosa succederà? Mano a mano che arrivano i dati dall’economia reale, si aggiornano le stime. Si va dalla “crescita zero” prevista dall’istituto di ricerca Ref, alla crescita dello 0,8 per cento indicata dal Centro Europa ricerche (Cer). Nessuno mette la firma sotto all’obiettivo ufficiale del governo, che prevede una crescita dell’1 per cento per il 2019.

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Un quadro che lascia pochi dubbi su quel che sta succedendo alla produzione, ma che non si riflette sui numeri del lavoro. Torniamo al dicembre 2018: in quel mese la variazione dell’occupazione sul dicembre 2017 è positiva per 202mila unità, i disoccupati sono diminuiti di 137mila e gli inattivi di 197mila.

L’occupazione è cresciuta anche nella seconda metà del 2018, sia pure a ritmi molto minori, non solo in termini assoluti ma anche misurando il tasso di occupazione. E anche per il 2020 non si prevede un calo: secondo le previsioni dell’ufficio parlamentare di bilancio (Upb), le unità di lavoro cresceranno dello 0,3 per cento nel 2019 e dello 0,6 per cento nel 2020.

Il paradosso, spiegato
Possiamo stare tranquilli? Niente affatto. Il tasso di occupazione italiano rimane tra i più bassi in Europa, e quello di disoccupazione tra i più alti. E normalmente, in tutte le recessioni, c’è uno sfasamento temporale, l’occupazione risponde con un po’ di ritardo alle variazioni dell’attività produttiva. Dunque potremmo aspettarci un effetto domino nei prossimi mesi anche sulle variabili dell’occupazione. Ma l’apparente paradosso di un’occupazione che cresce mentre l’economia declina può essere spiegato anche con alcuni cambiamenti strutturali nel mondo del lavoro.

In particolare, con l’aumento del lavoro a tempo determinato, part-time, occasionale, interinale. Gli stessi dati Istat prima citati registrano, per il 2018, una crescita del lavoro a termine: più 47mila a dicembre, mentre quello stabile si è ridotto di 35mila unità, e quello autonomo è cresciuto di 11mila.

La fine dell’effetto doping causato dagli incentivi alle assunzioni stabili, e l’incertezza sul futuro, possono aver spinto a fare più contratti a termine. Gli effetti del cosiddetto decreto dignità voluto dai cinquestelle al governo per disincentivare il tempo determinato non sono ancora visibili, anche perché è entrato davvero in vigore solo tra ottobre e novembre 2018.

Ma in tempi di crisi è difficile che quel disincentivo diventi una spinta verso il lavoro stabile. Potrebbe invece spingere i contratti verso la formula della partita iva, tanto più con il nuovo regime favorevole della flat tax.

Il lavoro che cresce, o che non declina allo stesso ritmo della produzione, è un lavoro precario, spesso a basso salario, che non copre tutto l’orario – mensile o annuale – che i lavoratori vorrebbero (è cresciuto il part-time involontario). Quindi da un lato aiuta le aziende a modellare le proprie strategie di fronte alla crisi, affrontare i picchi e le cadute senza dover fare grandi ristrutturazioni. Dall’altro, in qualche modo, nasconde la crisi, redistribuendo il lavoro (e il salario) che c’è.

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