Non solo giallo ma anche rosso, verde, viola, blu, marrone, nero, rosa: erano i colori dei triangoli che nei lager segnalavano per quale “crimine” si era reclusi. Era un crimine essere ebreo, oppositore politico (anche solo presunto), fuorilegge, testimone di Geova, esule, rom o sinto, emarginato (per esempio malato di mente o prostituta), omosessuale.

I primi campi, usati per rinchiudere oppositori e indesiderabili, nascono in Germania già nel 1933, e diventano migliaia durante la seconda guerra mondiale: negli anni quaranta tutta l’Europa è costellata di campi costruiti sul modello di Dachau, il primo, costruito ad appena quindici chilometri da Monaco di Baviera. Il governo tedesco oggi ne elenca 1.634, ma secondo alcune organizzazioni ebraiche erano più di 15mila, di cui almeno tre in Italia. Alcuni erano campi di lavoro, altri direttamente di sterminio. In alcuni si eseguivano sperimentazioni mediche o scientifiche, in altri si affermava di voler rieducare i prigionieri. Ma ci sono un’infinità di piccoli campi, soprattutto quelli destinati ai rom, che sono sfuggiti a questa classificazione ufficiale.

Nei lager sono morte almeno 15 milioni di persone, di cui tra i cinque e i sei milioni erano ebrei, 500mila rom e sinti, almeno duecentomila disabili, diecimila omosessuali, 2.500 preti cattolici e altrettanti testimoni di Geova (perseguitati soprattutto per il rifiuto di prestare servizio militare), 109 pastori protestanti e 22 popi ortodossi. E poi prigionieri di guerra russi e polacchi, civili slavi e dissidenti. È l’Olocausto, la strage che ha travolto milioni di persone di nazionalità e religioni diverse.

I massacri che per dodici anni hanno percorso il continente finiscono ufficialmente il 27 gennaio 1945, quando le truppe sovietiche entrano ad Auschwitz trovando l’impensabile, o forse quello che non si era mai voluto vedere: duecentomila prigionieri ancora in vita e le tracce di 1,5 milioni di morti. Nel 2005 le Nazioni Unite hanno deciso di dedicare il 27 gennaio al ricordo dell’Olocausto e di tutte le sue vittime. Gli ebrei ne avevano già fatto una memoria di popolo celebrando la shoah, la catastrofe. Solo più recentemente anche i rom hanno strutturato una loro memoria collettiva nel porajimos, la devastazione.

Sono passati solo dieci anni dalla sua istituzione, eppure già si parla di logorio del giorno della memoria, lo si considera un esercizio retorico e già liso. Ma in tempi di antisemitismo e antigitanismo, di razzismo e di crisi della convivenza, in tempi in cui i testimoni viventi stanno scomparendo, il giorno della memoria non è solo una parentesi di retorica buonista: è un’occasione per interrogarsi sulle radici e sul futuro delle società europee.

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