In piedi sulla collina, Samir guarda il sole scendere sulle baracche. È in città da mesi ormai, ha fatto in tempo a vivere le occupazioni in centro e gli sgomberi a fine marzo, ha visto spuntare le prime tende ad aprile e ha osservato il loro moltiplicarsi fino a quando questo posto non è finito sui giornali di tutta Europa: lo chiamano la giungla di Calais.

Nel cuore della fortezza Europa, più volte negli ultimi mesi Calais è stata raffigurata come il suo ultimo baluardo.

In quei racconti la giungla è il centro dell’assedio, la base da cui “sciami di persone” nelle parole del primo ministro britannico David Cameron, arrivano per cercare una vita migliore nel Regno Unito.

Abbiamo il dovere di proteggere i nostri confini da queste persone, conclude Cameron.

Samir scende dalla collina cantando tra sé, s’incammina in mezzo allo sciame.
François Guinnoc, presidente di L’auberge des migrants, una delle associazioni più attive nella zona, stima che al momento ci siano più di tremila migranti distribuiti sui 14 ettari di superficie della giungla.

Ogni giorno arrivano in città tra le trenta e le cinquanta persone, molte più di quelle che poi riescono i varcare i confini. A settembre la giungla ospiterà quattromila persone, entro l’inverno saranno più di cinquemila.

I sentieri di terra che conducono tra le baracche ricordano più quelli del Darfur che il continente europeo: Samir di tanto in tanto accenna un saluto e rifiuta un invito a cena.

Quello di offrire la cena a uno sconosciuto è un piacere di cui Samir non vuole privarsi

È appena finita la distribuzione del pasto giornaliero. Dopo ore di fila, in molti si sono raccolti fuori delle tende per spartire quello che hanno ricevuto con chiunque si presenti. Quello di offrire la cena a uno sconosciuto è un piacere di cui Samir non vuole privarsi. Distratto dal pensiero accelera per superare un mucchio di spazzatura.

Il panorama della giungla è cambiato moltissimo negli ultimi due mesi: nella ex discarica della periferia industriale sono sorte le prime tende, poi sono arrivate l’elettricità e la luce per i lampioni, insieme a cinque allacci per l’acqua potabile.

Con delle travi e con assi in legno, coperte, teli di plastica e materiali di fortuna gli abitanti della giungla hanno costruito una chiesa, tre moschee, tre ristoranti, una discoteca, bar e punti vendita alimentari e beni di prima necessità.

Risulta difficile capire come una popolazione così varia e numerosa sia riuscita ad autorganizzarsi

L’amministrazione ha fornito circa quaranta bagni chimici, ma i servizi igienici e lo smaltimento dei rifiuti restano ancora problemi da risolvere, mentre il numero di abitazioni è in crescita costante.

Grazie agli aiuti delle associazioni, ci sono anche una scuola con corsi di lingua e una libreria.

Allo sguardo esterno risulta difficile capire come una popolazione così numerosa e varia per provenienza sia riuscita ad autorganizzarsi.

Uno stendibiancheria nell’accampamento, il 19 agosto 2015. (Mauro Donato)

Samir stesso è sorpreso dal cambiamento: non deve più camminare per chilometri per comprare qualcosa da mangiare ma come altri ha paura che il posto si strutturi al punto di diventare un ghetto.

Si chiede se in effetti non lo sia già, e anche per questo crede sia arrivato il momento.
Stanotte Samir ci prova. Lo ha annunciato alla loro maniera: “I’m going for England”.

Ha detto for, non in England come invece sarebbe logico dire: sta andando per provarci, non può spingersi oltre quel for. Speranze, incertezze, paure, tutte compresse in quel for. Ha condiviso la cena con il suo gruppo nello spazio esterno alla capanna: dodici persone, una vecchia tovaglia e le zuppiere piene, sedie pronte per chiunque volesse aggiungersi.

Tra gli altri c’era John Cena, che si chiama Abu Bakr in realtà, ma tutti lo chiamano John Cena perché è basso e tozzo, fortissimo dicono, e ricorda il wrestler americano. John Cena ha riso e mimato il suo alter ego: i suoi compagni gli lanciavano i nomi dei principali sfidanti imparati in pomeriggi a guardare la televisione.

Finita la cena Samir è tornato nella capanna e ha indossato gli abiti migliori, anche se dovrà camminarci dentro per ore e attraversare fossi e campi di erba limacciosa, arrampicarsi sopra le transenne e forse correre e strappare tutto sul filo spinato. Si è vestito bene, perché è comunque l’Inghilterra e in Inghilterra ci si veste bene, lui l’ha imparato all’età di Muhammad.

Ha due figli, Samir. Muhammad, sei anni, e Hassan, sedici. Non li porta con sé, stanotte: “Too dangerous”, troppo pericoloso saltare le barriere e poi salire sul treno, anche se il pensiero di separarsi da loro è la parte più dura.

“Quella è l’unica cosa a cui non posso pensare. Se penso che può accadere qualcosa e potrei essere lontano mi fermo qua e rimaniamo in Francia. Ma questo lo sto facendo soprattutto perché, se riesco a passare, posso chiedere che mi raggiungano e dargli una vita migliore di questa. Però non posso fargli rischiare quello che sto rischiando io: li lascio con la comunità, ho amici che possono prendersi cura di loro”.

Dopo cena hanno giocato tutti e tre a torello con la palla, Muhammad che rideva forte e alla fine Samir ha lasciato il pallone e abbracciato i figli.

Un migrante prega in una delle tre moschee costruite nel campo, il 25 agosto 2015. (Mauro Donato)

Vai a letto, Muhammad, papà ha da fare. La luce del sole è calata del tutto ora che Samir attraversa la piazza, si alza il ronzio dei generatori che illuminano i ristoranti, il loro odore di benzina si mescola a quello del cibo.

La notte della partenza

La notte trasforma completamente il volto della giungla: il viavai sulle piazze e lungo i sentieri diventa più frenetico, più evidente la rete di traffici che ne governa il sottobosco. Dalle sigarette alla droga, su fino al commercio principale, quello degli smuggler, i trafficanti di esseri umani.

Un passaggio per l’Inghilterra può costare anche migliaia di euro, soldi che in parte sono reinvestiti nelle altre attività del campo e che legano in questo modo le mafie al territorio.

Samir è nel mezzo di una discussione al lato della piazza: alcuni ragazzi che conosce vogliono provare a passare la frontiera nascondendosi dentro i camion in autostrada perché è meno pericoloso che provare con i treni, anche se è più facile essere scoperti dagli scanner e dai cani della polizia. Per questo stanno discutendo se affidarsi ai trafficanti.

Sono maschi dai sedici ai ventisei anni, come la maggioranza della popolazione del campo, e come quella maggioranza hanno alle spalle storie che non vogliono rievocare, di fughe dalla guerra, traversate del deserto, torture, naufragi in mare.
Sanno cosa vuol dire finire nelle mani dei trafficanti, sarebbero disposti a rischiare ancora, solo se valesse la pena.

Chiedono com’è, quest’Inghilterra. È vero che “c’è lavoro, è un’economia in crescita, è un posto incredibile dove vivere”, come ha detto Cameron?

Rispondiamo di sì, forse c’è un po’ più lavoro, ma non siamo sicuri che le condizioni di vita possano migliorare, loro non si lasciano abbattere: “Saranno comunque meglio di qua: in nessun altro paese d’Europa abbiamo visto delle giungle”.

Ibrahim, al centro del gruppo, parla un inglese controllato. “Sappiamo che può essere difficile anche dall’altra parte, ma in Sudan siamo sempre stati colonia britannica. In Algeria erano colonia francese, gli algerini capiscono meglio la Francia. Noi siamo cresciuti con gli inglesi accanto, sentiamo di essere più preparati a capire la loro società e crediamo che anche loro possano capire meglio quello che ci sta succedendo”. Tutto il gruppo annuisce con convinzione.

Nonostante Theresa May e Bernard Cazeneuve, ministri dell’interno in Francia e nel Regno Unito, abbiano concluso un accordo che prevede lo stanziamento di più di dodici milioni di euro per aumentare i controlli e rafforzare le barriere, molti profughi restano convinti che il Regno Unito possa aiutarli: “Mi sono laureato da ingegnere petrolchimico”, conclude Ibrahim. “Lui è ingegnere informatico, questo accanto a me è un avvocato, gli altri tre sono allevatori. Ci hanno sempre detto che l’Inghilterra è un posto dove chi ha competenza può trovare lavoro. Abbiamo il dovere di provarci. Lo dobbiamo alle nostre famiglie”.

“Provarci” non significa inviare un curriculum o prendere appuntamento con qualche grossa azienda. Significa nascondersi, infrangere una legge e cacciarsi nei guai. Significa tornare con un braccio o una gamba rotti. In dieci casi, da giugno a oggi, ha significato la morte.

Un’altra partita

Samir si raccomanda con i ragazzi di fare attenzione. “Giocheremo ancora?”, chiede uno di loro. “In Inghilterra”, si augura qualcuno. C’è una struttura, non lontano dalla giungla, dove i profughi vanno a giocare a calcio prima del tramonto.

I campi sono nuovi, ben tenuti: porte e perimetro in metallo verniciato bianco. I ragazzi si dividono in squadre, si allineano al centrocampo e fanno il saluto proprio come se avessero uno stadio intero ad applaudirli.

I migranti in un campo da calcio vicino alla tendopoli, il 25 agosto 2015. (Mauro Donato)

Samir e gli altri si sono conosciuti là, urlando e correndo, alcuni a piedi scalzi, in quella cornice di erba curata. Lasciando indietro per qualche ora barriere e brutti ricordi.

I ragazzi sorridono e se ne vanno, stasera la partita è tutta un’altra.

La piazza si è riempita di gente che balla al ritmo di tamburi: alcuni tengono un ramo di ulivo sulla testa. Oggi tre ragazzi sono riusciti a passare il confine, quei tre ragazzi sono motivo di festa per tutti.

“Facciamo festa ogni volta che possiamo”, spiega Samir, “serve forza per continuare a viaggiare e questo ci ricorda da dove veniamo, ci ridà coraggio”.

All’angolo della piazza c’è un generatore collegato a otto ciabatte. Ogni ciabatta è collegata a sei, otto telefoni cellulari in carica: molti proprietari restano attaccati ai telefoni, ipnotizzati dallo schermo.

Visto dall’alto, è una sorta di Baobab elettrico: cavi come rami, uomini come foglie. Appena fuori invece c’è una piccola collina a ridosso della strada provinciale. Anche a quest’ora della sera è piena di figure accucciate o in piedi, curve sugli schermi dei telefoni.

Nessuno sa da dove venga il segnale che si riceve in questa zona: probabilmente una delle ville dall’altra parte della strada ha una rete non protetta. La chiamano la collina del wifi.

È qui che incontriamo i compagni di Samir, uscendo dal campo.

“È divertente, sembra una specie di luogo fatato”, sorride uno dei ragazzi mentre superiamo la collina. “Però è anche una vera benedizione. Possiamo chiamare le nostre famiglie, scrivere ai nostri amici, controllare le notizie o le mappe per capire come muoverci. Avere un telefono e internet a volte può decidere il nostro destino”.

Si chiama Sharif, è arrivato dalla Germania oggi, non ha ancora deciso se vuole andare in Inghilterra o chiedere asilo qua in Francia: le voci che ha sentito nella giungla sono scoraggianti, negli ultimi giorni i francesi hanno eretto un’altra barriera a difesa della ferrovia e sono arrivati rinforzi dalla polizia britannica.

Nessuno, tra chi spera di andare o chi ha deciso di fermarsi, vuole rimanere nella giungla

Anche per questo il numero di migranti che nell’ultimo periodo ha deciso di chiedere asilo in Francia è aumentato: la loro percentuale nella giungla è al 30 per cento, contro il 70 per cento che cerca ancora di andare nel Regno Unito. Molti di loro semplicemente pensano di aver rischiato abbastanza.

“Ma ti posso assicurare che nessuno, tra chi spera di andare o chi ha deciso di fermarsi, vuole rimanere nella giungla”, dice Mujahid, 24 anni. “Tutto è troppo difficile, qua dentro. Con l’inverno, le piogge ci spazzeranno via tende e capanne, non sappiamo se resisteremo al freddo. Alcuni giorni sale una puzza asfissiante dal terreno, non ci sono abbastanza bagni e punti di raccolta per i rifiuti. Ci sentiamo animali, a volte. Quando chiamo i miei a Khartoum gli dico che sto a casa di amici, in città. Non posso dirgli che abito in un posto come questo, ci starebbero troppo male”.

Migranti costruiscono un negozio per l’accampamento, il 21 agosto 2015. (Mauro Donato)

Anche Mujahid ha lasciato il Sudan dopo essere stato imprigionato. Nel suo caso, le sbarre sono arrivate per aver pubblicato su internet un pezzo di musica rap contro il regime.

“Lo so che la televisione vende solo cazzate”, continua “ma da quando sono piccolo tutti mi ripetono che l’Europa è la culla della civiltà moderna. È questo che intendono? Discariche ghetto, cortine di ferro e filo spinato? È questo il paese meraviglioso dove vivere?”.

“Prima di partire ho imparato a programmare in Php, Css, Sql, Java, C. Ho imparato da solo, su internet. In Germania sono riuscito a parlare con un’azienda di esperti informatici: gli ho spiegato tutto quello che so fare, loro mi hanno detto che gli serve il foglio per prendermi a lavorare. Quel maledetto foglio”.

Un sospiro. Mujahid parla con difficoltà.

Forse domani staremo ancora meglio

“I miei genitori hanno dato tutti i soldi che avevano per farmi partire: io non posso fermarmi. Lo so che ormai sono in salvo e non rischio più la morte, e sono grato per questo. Ma questa non è vita e io non posso arrendermi. Non m’importa cosa c’è in Inghilterra, se non troverò quello che cerco ripartirò ancora. Il mio viaggio non può finire così. Io non riesco a vederlo, un futuro”.

Le luci della giungla sono lontane, camminiamo a passo veloce nel buio della periferia. “Prima sotto il regime stavamo male. Stiamo ancora male, ma comunque meglio di prima”. Sharif mostra le cicatrici sulle braccia. “Anche io ho fatto undici mesi di prigione a Khartoum. Se ti mostrassi i segni di frusta sulla schiena non crederesti ai tuoi occhi. Io penso che se siamo riusciti a superare tutte queste difficoltà, forse domani staremo ancora meglio”.

“Anche io ho studiato economia, ho passato gli ultimi anni a studiare la Lehman Brothers e la crisi mondiale. Lo so che anche in Europa c’è crisi, conosco i numeri. E so che siamo tanti a emigrare dai paesi in difficoltà e che abbiamo un impatto forte sull’economia globale”.

“So anche che la maggioranza di chi arriva non ha studiato come me. In gran parte siamo gente che non può creare ricchezza. Questo lo so e lo capisco. Ma un paese che spende dodici milioni per costruire barriere e pagare eserciti non sta comunque investendo? Il numero di persone che arrivano aumenterà ancora, perché le guerre sono aumentate. Tutto il mondo è cambiato negli ultimi anni, anche l’Europa”.

“Non è meglio rendersi conto del cambiamento e investire in quello? Io non posso parlare per tutti, è vero. Ma credimi, sono sicuro che tutta questa gente che ha vissuto una vita così dura in cambio di un po’ di dignità farebbe qualunque cosa per aiutare a costruire una nuova Europa insieme a voi”.

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